#Grillo e il suo ultimo spettacolo
Non è mai stato un eccelso artista, almeno non per me. Non ha mai avuto la classe di Roberto Benigni o la sagacia di Walter Chiari. Aveva sempre utilizzato un linguaggio sopra le righe, le parolacce, gli insulti spesso qualunquisti.
Ma negli ultimi quindici giorni Beppe Grillo ha fatto la sua pièce migliore sul palcoscenico globale, davanti all’intero popolo italiano.
Facendo leva sulla straordinaria memoria collettiva italiana, non molto più grande di quella di Abramo, il pesciolino rosso di Arnold, è riuscito a fare dimenticare gli strali che qualche anno prima aveva lanciato contro le pensioni d’oro, fra le quali vi era anche quella che la collettività paga a Stefano Rodotà.
Negli ultimi giorni prima della seduta del Parlamento in seduta comune, insieme a Casaleggio aveva cominciato la strategia 2.0 del Movimento Cinque Stelle: finalmente, dopo mesi in cui la scena era stata tutta per le gaffe quotidiane di Roberta Lombardi e Vito Crimi, il duo che guida il partito pentastellato era sceso a sporcarsi le mani, a fare politica. Aveva cominciato il guru della rete incontrando un’associazione di imprenditori a Torino, promettendo – come i vecchi democristiani di una volta – meno tasse e più soldi, al motto che fa sempre presa sui padroni “i vostri problemi sono anche i miei“. Qualche centinaio di chilometri più a oriente, all’estremità di quel Nord-Est in ginocchio per la crisi, il comico genovese smetteva per la prima volta con i toni di insulto e proponeva a Pierluigi Bersani un accordo.
Credo che tutta Italia abbia capito che Grillo, in quella clip video girata sul suo camper, non stesse scherzando: era chiarissimo che una nuova fase era cominciata, era chiaro a tutti tranne che al segretario del Partito Democratico ed ai suoi consiglieri della segreteria e della direzione del partito.
Ed è surreale che proprio i professionisti della politica, coloro che hanno speso una vita intera dentro i palazzi e dentro la politica, non abbiano proprio compreso la portata direi storica di quell’apertura di Grillo.
Ma l’errore più incredibile e sinceramente imperdonabile è stato quello di aver lasciato credere, all’opinione pubblica, che Stefano Rodotà fosse un nome del Movimento Cinque Stelle.
È un insulto all’intelligenza di tutti gli elettori che non sono così ottusi come loro credono e che conoscono benissimo la statura morale e civile del professor Rodotà. Senza nulla togliere a Romano Prodi, l’uomo che ha presieduto il miglior governo che il nostro Paese abbia mai avuto dal 1948, quello dell’Ulivo del 1996, la candidatura del giurista calabrese sarebbe dovuta essere proposta proprio dal Partito. Acclamata, altro che votata.
E non soltanto per la guerra termonucleare contro Silvio Berlusconi che il nome dell’ex Presidente della Commissione Europea evoca su di sé, ma proprio per l’incredibile levatura terza che Stefano Rodotà poteva incarnare. Certo, aveva sottoscritto l’appello per l’ineleggibilità di Berlusconi e sicuramente questa cosa – agli occhi del centrodestra – poteva apparire contro. Ma è indubbio che per la sua storia politica e professionale Stefano Rodotà fosse una candidatura quasi istituzionale.
Il comico genovese questa cosa l’ha capita bene e ha dato al PD il tempo di comprenderla prima di giocare il nome del giurista e scatenare la rabbia della base del partito. Ed è perfettamente inutile continuare a chiedere i risultati delle Quirinarie, come molti giornalisti continuano a fare intervistando i parlamentari di Grillo: mi sembra abbastanza evidente che i primi due nomi, ammesso e non concesso che siano arrivati veramente primi, fossero soltanto colpi teatrali.
Nessuno sano di mente avrebbe mai creduto che una bravissima giornalista come Milena Gabanelli, senza alcuna esperienza politico-istituzionale, o Gino Strada, straordinario uomo di missioni umanitarie ma sinceramente assai carente sui temi costituzionali, avrebbero avuto la minima chance di poter essere eletti al Quirinale.
Per 30 ore, che in politica sono un’eternità, Beppe Grillo ha lasciato a Pierluigi Bersani la palla dello smash. Tante cose avrebbe potuto fare il segretario del PD: innanzi tutto avrebbe potuto proporre, nei primi tre scrutini, quando la Costituzione impone larghe intese, un nome istituzionale, cercando la condivisione di tutto l’arco politico e non soltanto con una delle due minoranze nate dalla schizofrenica legge elettorale. Ce ne sono a bizzeffe nomi istituzionali: il Ministro dell’Interno, il Presidente della Consulta, il Presidente del CNEL, il Presidente del CENSIS, il Governatore della Banca d’Italia, l’Ambasciatore alle Nazioni Unite, chiunque agisca in Italia in nome delle istituzioni.
Avrebbe potuto aggiungere che dal quarto scrutinio proponevano proprio Stefano Rodotà in quanto primo Presidente del vecchio PDS e insigne personalità del centrosinistra, indipendente del PCI nella Prima Repubblica ed Europarlamentare dello stesso partito per cinque anni. Avrebbe potuto offrire una candidatura di partito sì ma anche della cosiddetta società civile, facendo anzi far vedere come la società civile all’interno dei partiti fosse rappresentata proprio da personalità di tale levatura. Avrebbe potuto sfruttare la storia politica e istituzionale di Stefano Rodotà proprio per ridurre la distanza che Grillo vuol far credere ci sia (e forse non tutti i torti ha) fra la gente e il Palazzo.
E invece no!
Ha lasciato che Grillo – che era stato anche duramente attaccato dallo stesso Rodotà per le sue posizioni populiste – ne facesse un’icona del popolo contro il palazzo, proprio quello stesso giurista che ha sempre difeso l’alto nome del Palazzo (P maiuscola), un uomo che si è speso per ampliare e non ridurre i diritti degli individui e delle comunità ma sempre all’interno dello Stato di Diritto.
E alla fine in scena è rimasto quindi solo lui, Giuseppe Piero Grillo detto Beppe, a prendersi la standing ovation per la migliore interpretazione della sua vita, una sorta di Oscar alla carriera che non ha avuto quando calcava i palcoscenici dei teatri o dei set cinematografici.
Ha prevalso la logica di una vecchissima politica per cui se il nome è proposto da un avversario non va bene a prescindere, mentre lo spirito dei Padri Costituenti era proprio l’opposto.
E per una delle poche volte sono d’accordo con Massimo Cacciari che ieri, da Michele Santoro, ha ricordato come questa elezione è la più politicizzata di tutte le precedenti elezioni per il Colle e questo non è certamente un bene per le nostre Istituzioni.
A Costituzione vigente siamo ancora una Repubblica Parlamentare e il Parlamento ha anche il compito di garantire un Governo: stiamo invece assistendo alla ricerca di un Presidente che sia foriero di un accordo politico per la formazione del Governo. È stato così con la candidatura di Marini, chiaramente frutto di un accordo per un governo di larghe intese o di non sfiducia con il PDL, lo è stato manifestamente con quella di Rodotà e lo è ancora con quella di Prodi che – se tutto va liscio – sarà eletto dodicesimo Presidente della Repubblica.
Ma a Costituzione vigente e ricordando sempre e comunque i poteri che la stessa Carta fondamentale conferisce al Capo dello Stato avremmo potuto eleggere al Quirinale il miglior candidato possibile, un candidato che sicuramente avrebbe incarnato più di tutti quel senso dell’Unità Nazionale che la nostra Costituzione afferma essere rappresentato dalla figura del Presidente della Repubblica.
E quel candidato era ed è Stefano Rodotà che purtroppo – salvo sorprese pomeridiana – rimarrà una candidatura bruciata nel falò delle vanità degli ultimi partiti della Seconda Repubblica, sperando che la Terza, ove mai dovesse nascere in questa legislatura, possa portarci ad un più civile confronto politico e soprattutto a nuove e rinnovate classi dirigenti.
p.s. 1 Sarebbe interessante conoscere quali siano le obiezioni che la corrente di Matteo Renzi rivolge verso il nome di Stefano Rodotà come Capo dello Stato, sempre a Costituzione vigente, cioè considerando che stanno eleggendo il Presidente della Repubblica e non il Presidente del Consiglio dei Ministri. Sarebbe infatti auspicabile che non vengano confuse le posizioni legittime sui beni comuni o sui diritti civili del professor Rodotà come una sorta di manifesto governativo perché nessuno – sano di mente – può nutrire il minimo dubbio che il professor emerito della Sapienza si farebbe guidare soltanto dalla Carta e dal Diritto e non dalle proprie convinzioni personali.
p.s. 2 L’unico che ha capito perfettamente che Grillo non stesse scherzando è stato proprio Silvio Berlusconi che ancora una volta si sta sfregando le mani, gustandosi una prossima e forse imminente campagna elettorale, dove potrà trascinare nel fango anche la Presidenza della Repubblica. Complimenti vivissimi alla dirigenza democratica!