Credo in Ecclesiam Dei
Con quello che forse è il più bel discorso da quando è stato eletto Papa, il 19 aprile 2005, Benedetto XVI saluta Roma e il Mondo con parole di una grande forza spirituale. Nella serenità, nella fermezza e nella sicurezza della sua voce, commossa ma limpida, Joseph Ratzinger chiude un pontificato con una grande catechesi e una bella tirata d’orecchie ai suoi fratelli cardinali.
“La barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua, e il Signore non la lascia affondare“, ricorda fra gli applausi dei fedeli raccolti in piazza San Pietro. E fa un bel vedere osservare le loro eminenze reverendissime, i cardinali di Santa Romana Chiesa, fra i quali vi è anche il contestatissimo Arcivescovo Emerito di Los Angeles Roger Mahoney, quasi arrossire per quel rimprovero “non è nostra” che l’anziano papa rivolge a tutti noi e in primis a loro.
Già dal famoso comunicato in latino, pur tra qualche errore sintattico come fece notare qualche latinista sui giornali, traspariva la profonda fede di questo teologo tedesco che prende congedo dal mondo e si accinge a servire il suo Signore e la sua Chiesa in un modo nuovo.
“Non abbandono la croce ma resto sulla croce in modo nuovo” afferma Benedetto XVI e forse duemila anni di storia della Chiesa vengono proprio rivoluzionati da questo gesto. Quante volte abbiamo ascoltato, durante gli ultimi giorni della vita di Giovanni Paolo II, che come Cristo non si scende dalla propria croce. Papa Ratzinger invece umanizza la figura del Pontefice, il Vicario di Cristo secondo la dottrina cattolica ed eletto dai Cardinali in Conclave sotto l’ispirazione diretta dello Spirito Santo, Terza Persona della Trinità, e quindi di Dio stesso. La umanizza e la rende anche più umile quasi come a dire: “chi sei tu uomo per pensare di sopportare la croce come fece Cristo“?
Il papa ha relativizzato anche la croce per come l’abbiamo conosciuta sinora: se il fedele è chiamato ad un compito all’interno della Chiesa egli è chiamato a servirla al meglio delle sue possibilità e pensando sempre al bene della Chiesa e non al proprio tornaconto personale, né tanto meno alla soluzione più semplice per sé.
E se il Beato Wojtyla scelse di immolare il proprio corpo sull’altare di San Pietro, quasi a far vedere come la sofferenza potesse essere un nuovo martirio nel nuovo millennio, papa Joseph Ratzinger decide che la Chiesa ha bisogno di un Pastore nel pieno della forza fisica: la barca di Pietro ha bisogno di un capitano forte e attento al mare che deve attraversare.
E per sé ritaglia il ruolo che forse gli è più congeniale: quello della preghiera e non quello della mondanità. Non ci sono precedenti, Celestino V e Gregorio XII sono così lontani che il Papa poteva scegliere per la figura del Pontefice Emerito quello che voleva. Invece sceglie la cosa più semplice perché nella vicinanza anche fisica al suo successore c’è quello che accade in ogni diocesi, dove l’Arcivescovo Emerito continua la sua attività pastorale e di studio nella stessa diocesi del successore, o dei successori come ad esempio è capitato nella diocesi ambrosiana con la presenza, fino alla morte del Cardinale Martini, di tre Cardinali arcivescovi, Scola (in carica), Tettamanzi e appunto lo stesso Martini.
Ed il richiamo alla collegialità, nella gestione in comunione della Chiesa, è forse un colpo di piccone alla figura ancora troppo romano-centrica del Pontefice romano e non si può non vedere come un ponte verso la comunione anglicana e le Chiese autocefale ortodosse, che riconoscono comunque al successore di Pietro un primato morale sugli altri Vescovi.
Il Papa lascia il ministero petrino nella piena consapevolezza della sua gravità e anche novità, ma con una profonda serenità d’animo.
E forse mai come oggi, ascoltando le sue parole, si comprende come quella serenità, sbandierata sin da quell’11 febbraio, abbia le sua fondamenta proprio nella Fede che egli ripone nel suo Dio e nella sua Chiesa.