I giornali italiani visti dagli States
Se si guardano le prime pagine dei quotidiani italiani oggi in edicola colpiscono due cose: la prima è che naturalmente quasi tutti aprono sull’attesa dell’elezione del Presidente USA. La seconda è che ci sono invece alcuni quotidiani che non riescono a riposarsi nemmeno per una notte dalle polemiche (anche stucchevoli) nostrane.
Colpisce (positivamente) ad esempio la prima del Manifesto: Barack Obama è quanto di più lontano dal quotidiano comunista eppure la direttrice Norma Rangeri e i suoi colleghi/compagni evidentemente capiscono quando è il caso di auspicare il male minore. Il presidente americano non è infatti certamente un esponente di quella che noi chiameremmo Sinistra Radicale, anche se intelligentemente (e furbescamente) ha teso una mano al movimento di Occupy Wall Street, vicino a posizioni – diremmo noi in Italia che inventiamo un aggettivo al giorno per la sinistra – antagoniste.
Obama è più un uomo di centro nel centro-sinistra americano rappresentato dai Democrats: un pacato e moderato intellettuale, con una forte propensione per le problematiche sociali (d’altronde faceva quello di mestiere a Chicago, occuparsi dei più deboli) senza però criminalizzare chi di mestiere mette e fa i soldini. Perché allora in Italia la Sinistra Radicale deve sempre cercare di trovare e votare il più puro dei puri e non appoggia il meno peggio, pur di non far vincere la destra? Forse perché è più semplice fare l’opposizione a Passera, Montezemolo e Casini, piuttosto che confrontarsi nel merito con Bersani o Vendola.
Gli altri quotidiani, quelli maggiori nazionali e molti regionali, aprono quasi tutti sull’incertezza del voto a stelle e strisce.
Più originali, dagli altri s’intende, ma sempre perfettamente in simbiosi tra loro (sono convinto che hanno lo stesso titolista!), i due quotidiani di spiccata fede berlusconiana, il Giornale e Libero, che ancora una volta tradiscono il loro spiccato provincialismo, anzi arcorismo, e titolano – a caratteri cubitali – quella che per loro è la notizia del giorno e cioè che Gianfranco Fini è stato fischiato, contestato, sputato e quasi menato dai democraticissimi fascisti presenti alle esequie di Pino Rauti.
Ora non dico che la notizia che un gruppo di nostalgici fascisti abbia sputato al Presidente della Camera dei Deputati non sia una notizia, ma farci il titolo, l’apertura e gli editoriali di punta, a firma dell’intellettuale di punta della destra italiana nel primo, già consigliere di amministrazione della RAI, Marcello Veneziani, e del direttore del secondo, Maurizio Belpietro, la dice lunga sullo stato comatoso della destra berlusconiana ormai al tramonto. Per non parlare del cronista del Giornale che si è lanciato in un ardito paragone fra Fini e Scalfaro, quando quest’ultimo fu contestato ai funerali di Borsellino (non si può dimenticare il giudice Ayala fare da scudo umano al Presidente), come se i camerati riuniti a Roma fossero confrontabili all’esasperata società civile palermitana, prima vittima della guerra delle cosche, e dimenticando inoltre che Pino Rauti è morto per vecchiaia e non per un’autobomba zeppa di tritolo.
Il Fatto Quotidiano dedica alle elezioni americane una bella foto di Obama e Springsteen, dopo il comizio di The Boss in Wisconsin, sebbene non resista alla tentazione di uscire – ogni tanto farebbe bene – dal nostro Stivale, riposare i piedini e guardare anche oltre la siepe di leopardiana memoria. Così il titolo di apertura è ironicamente (Miracolo!) sul fatto che il Governo Italiano ha trovato i soldi per i malati di SLA (certo che anche questi professori non riescono proprio a evitare tutte queste gaffe, eh?) mentre l’editoriale di Marco Travaglio si scaglia contro Eugenio Scalfari, reo – il Fondatore di Repubblica – di aver osato attaccare il nuovo dio della rete e novello Simon Bolivar d’Italia Beppe Grillo. Sfotte, il vice direttore del quotidiano di Via Valadier, finanche sul fatto che Scalfari non riesca a cliccare in alto a destra, sul blog di Grillo, su scarica il programma, riducendo la critica di Scalfari a demenza senile di un intellettuale sulla via del tramonto. Tutti – ma proprio tutti – coloro che leggono l’ex direttore del quotidiano ora diretto da Ezio Mauro, sin dalla usa fondazione, hanno capito, leggendo domenica l’editoriale, che Scalfari intendeva quello che molti, moltissimi (probabilmente la maggioranza non rincitrullita dalle balle di Grillo), in Italia continuano a sostenere e cioè che il programma del Movimento è un elenco di cose, molte delle quali condivisibili e buone e molte delle quali non condivisibili e dannose. Ma manca nell’elenco – per divenire programma – la sostenibilità economica per la realizzazione di alcuni punti (tra quelli buoni e condivisibili ad esempio la banda larga per tutti) e soprattutto non è un programma serio, per un paese di 60 milioni di abitanti, il 6° o 7° paese più industrializzato del mondo, uno dei sei paesi fondatori dell’Unione Europea, un programma che sostiene l’uscita dalla moneta unica senza analizzare i costi enormi per le fasce di popolazione meno protette, la cancellazione del debito pubblico, senza informare che tutto il welfare state, per come lo conosciamo oggi, scomparirebbe per il semplice fatto che nessuno ci presterebbe più mezzo dime (tanto per rimanere negli States) per finanziare un giorno di sanità pubblica, l’assenza totale di qualunque politica estera e di difesa.
Sul Tempo invece Mario Sechi – per non sbagliare – fa un titolo sullo scandalo del Corvo al Viminale, ma subito dopo una foto dei due contendenti alla Casa Bianca e un interessante editoriale difficilmente non condivisibile. Sechi ormai si è staccato dalla destra berlusconiana osservante e ha capito – per tempo – che la ricreazione era finita e che si doveva tornare (o forse dovremmo dire provare) a cercare una destra anche Italia che sia degna di questo nome. Così riesce a fare un bell’articolo sulle profonde differenze fra i due sistemi elettorali: in America il primo produce certezze. Alla fine del percorso, anche se si dovesse stasera arrivare ad un pareggio (269 grandi elettori ciascuno), la Costituzione degli Stati Uniti prevede il percorso per garantire la continuità istituzionale. Vista con gli occhi degli States la nostra Penisola, patria del diritto e con una Costituzione repubblicana ispiratasi a quella statunitense e per molti versi certamente migliore (basta l’articolo 11 per esserlo), appare come un grande casino: legge elettorale che non garantisce – allo stato attuale – né la scelta dei candidati né del governo (per effetto del premio di maggioranza al Senato su base regionale). Stasera – se tutto va bene – gli Americani se ne andranno a nanna sapendo chi sarà, per i quattro prossimi anni, a rimboccar loro le coperte. Qui invece lo spoglio dura un’eternità, vincono tutti, e tanto per incasinarci la vita il nuovo Parlamento dovrà prima eleggere i suoi organismi di presidenza, poi in seduta comune con i delegati regionali eleggere il nuovo Capo dello Stato, infine il nuovo Presidente potrà conferire l’incarico di formare il nuovo Governo dopo le consultazioni dei gruppi parlamentari. Sempre che si riesca a formare il Governo ci sono due voti di fiducia da superare nelle due camere.
Il 21 gennaio 2013, alle ore 12.00 di Washington DC, il neo-eletto Presidente e il neo-eletto Vice Presidente, giureranno sulle mani del Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti d’America e saranno nella pienezza dei poteri. Due settimane prima si sarà insediato il nuovo Congresso degli Stati Uniti. Tutto è certo, tutto è stabilito. In Costituzione.
Anche Pubblico, il nuovo giornale di Telese, preferisce essere alternativo, relegando l’elezione americana a un piccolo banner rosso in basso. Titolo d’apertura per il KO tecnico del Governo sul d.d.l. di stabilità, come se fosse responsabilità dei professori il normale assalto alla diligenza prima delle elezioni. Confesso che capisco bene perché Telese, con altri giornalisti fuorisciti dal Fatto, si sia messo a fare un nuovo giornale d’opinione. La cosa singolare è che fanno un giornale praticamente speculare a quello di Padellaro e Travaglio, se non fosse che questi ultimi sono appiattiti sulle posizioni di Grillo mentre Telese su quelle della FIOM. Avessero trovato una mediazione forse sarebbe stato meglio!
Insomma ancora una volta – vista dagli States – l’informazione italiana, salvo i grandi supermercati d’informazione (quelli che gli snob indicano come giornali tutti asserviti ai poteri forti e al Governo dei Professori) che sono la Repubblica, il Corriere della Sera e la Stampa, soffre della faziosità di alcuni giornali, specialmente di quelli di opinione. A destra come a sinistra, i giornali che dovrebbero cercare di rosicchiare qualche lettore ai tre grandi quotidiani nazionali, sembrano più che altro realizzati soltanto per compiacere i propri lettori e non per stimolarli. Così saranno sicuramente stati felici i neo-fascisti e i berlusconiani di fede intransigente nel leggersi i loro quotidiani e la cronaca di quanto accaduto ieri a Roma a Fini. Ma per quello bastavano e avanzavano i video in rete. E anzi avrebbero anche goduto maggiormente, credo, nel vedere il loro nemico giurato contestato, piuttosto che leggere le parole del cronista o il pontificale di Veneziani e Belpietro. E si sentiranno rassicurati gli attivisti del Movimento Cinque Stelle e i vari simpatizzanti quando avranno letto il loro editoriale quotidiano di Travaglio, visto che la notizia del caos nel Movimento è stata relegata in nona pagina e nemmeno fra i titoli è apparsa la ragione per la quale la Salsi ha definito setta la deriva che il partito grillino stava prendendo.
Ecco il giorno che l’America sceglie se andare avanti o tornare indietro alle solite politiche del trickle-down, peraltro realizzate da una mezza cartuccia e non da Ronnie Reagan, la stampa italiana mostra tutti i suoi limiti, incapace di generare – oltre ai soliti noti – opinioni di testa e non solo di pancia.