Cronaca di un normale folle weekend sulla stampa italiana
Se un marziano fosse capitato nel nostro Paese durante la scorsa fine settimana e avesse letto un po’ di quotidiani in edicola avrebbe fatto retromarcia con la sua astronave e se ne sarebbe tornato su Marte. Non c’è stato un settore della carta stampata o web che non abbia descritto a pieno la schizofrenia nella quale il Belpaese sembra piombato. Iniziamo dalla Giustizia e dalla Cronaca giudiziaria.
Abbiamo cominciato con un’indimenticabile prima pagina de Il Giornale, diretto da Alessandro Sallusti, che pubblica una straordinaria intervista all’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (fratello dell’editore del quotidiano stesso, per chi non se lo ricordi), imputato a Milano anche di concussione e prostiuzione minorile per l’ormai famosissima (worldwide) vicenda di Ruby Rubacuori, nella quale – con la sfrontatezza che lo contraddistingue e con l’arroganza del potente e del ricchissimo uomo d’affari (leciti e non) che sa che non pagherà mai per le sue nefandezze – difende e rivendica la scelta di aver aiutato le sue olgettine-girls, a cominciare da Nicole Minetti anche lei sotto processo per reati connessi a quelli contestati all’ex Premier, che è una consigliere regionale a 10 mila euro al mese al Pirellone! Senza nemmeno essere stata votata, si ricordi, bensì eletta perché inserita nel listino bloccato di Roberto Formigoni vincitore delle elezioni (con ombra di firme false) regionali del 2010.
Nello stesso quotidiano Vittorio Feltri, un uomo che viene invitato dappertutto in TV quale rappresentante della stampa di destra e della borghesia, difende la neo compagna del direttore dello stesso giornale per il quale scrive, Daniela Santanché, che giusto qualche giorno prima, in una trasmissione radiofonica con l’evidente intento di provocare qualche reazione sulla sua persona (altrimenti ormai caduta nel dimenticatoio), aveva paragonato la Minetti a Nilde Jotti (in quanto quest’ultima la donna di Togliatti): Feltri si lascia andare ad uno dei suoi articoli forti, dove giustifica l’ex esponente di Governo (ogni tanto bisogna ricordare anche queste cose!) e banalizza le critiche sottolineando l’aspetto bigotto del Partito Comunista e del fatto che l’ex inquilina di Montecitorio avesse fatto casa e alcova alle Botteghe Oscure, senza nemmeno menzionare che Nilde Jotti avesse partecipato attivamente alla resistenza dal nazi-fascismo (d’altronde per il quotidiano di più forte osservanza berlusconiana la Resistenza è il male assoluto, essendo diretto da un vero neofascista quale Sallusti), fosse un membro dell’Assemblea Costituente (quella che definì la Costituzione che il vero proprietario del quotidiano citato calpesta ormai dal 1994) e facesse politica ben prima della sua relazione con il Migliore.
Come se non bastasse sabato arriva la notizia della sentenza della Corte di Appello di Milano sulla strage di Piazza della Loggia, ovviamente ripresa da tutti i maggiori quotidiani domenica insieme alla notizia shock della scomparsa improvvisa del calciatore del Livorno Morosini.
Mario Calabresi, direttore de la Stampa di Torino nel suo editoriale chiedeva interventi per evitare l’assurdo pagamento da parte dei parenti delle vittime delle spese processuali, che ha tanto una sapore di cornuti e mazziati. Ne ha parlato anche Massimo Gramellini, vicedirettore del quotidiano torinese, nel suo intervento su Rai Tre sabato sera: dopo trentotto anni in Italia non siamo in grado di fornire una verità processuale e quindi di dire per quale motivo alcune persone di ogni età e estrazione sociale un giorno non siano tornate a casa e siano morte durante gli anni bui del Terrorismo. Ancora una volta non abbiamo risposte a stragi che vedono coinvolti pezzi deviati dei servizi, depistaggi, prove false e tutto quanto possa servire per dipanare ogni ragionevole dubbio che un processo penale ovviamente deve essere sempre superato, prima di infliggere qualunque pena.
Ma per un altro quotidiano di stretta osservanza berlusconiana, Libero, fondato da quel Vittorio Feltri che scrive – come già detto – sul gemello e diretto da Maurizio Belpietro, la strage di stato non è quella di Piazza della Loggia! Si strumentalizza la sciagura dei suicidi di imprenditori, pensionati e poveri disgraziati che in un periodo di crisi economica come questo decidono di farla finita con questo mondo e provano a vedere se nella morte c’è veramente il riposo che molti predicano o se piuttosto sia solamente l’interruttore della vita, on/off. Naturalmente della notizia della sentenza meneghina nemmeno l’ombra sulle sue pagine ma la frase ad effetto viene adoperata per dipingere un affresco della situazione economica del Paese che porta a queste depressioni, viene allungata nei commenti cercando di inserire qualche attacco qua e là all’esecutivo e infine si chiude con un articolo a tutta pagina di Socci che pensa ad un’Italia impegnata a discutere del Trota quando il mondo sta per entrare in un potenziale conflitto atomico fra Israele e Iran!
Nessun riferimento – nemmeno marginale – al fatto che il 4 novembre 2011 (cioè nemmeno sette mesi fa e solo otto giorni prima che si togliesse dai piedi) il datore di lavoro di Belpietro (nel senso che conduce una trasmissione al mattino su Canale 5) avesse dichiarato solennemente, dopo il vertice di Cannes, che la crisi in Italia era una fantasia giornalistica e totalmente percepita, avvalorando tale sua originale tesi per il fatto che i ristoranti fossero pieni ogni sabato e che non si trovava un posto in aereo nemmeno a pagarlo (detto da lui che non ha bisogno di andare né al ristorante né su un aereo di linea era proprio una garanzia). Quindi se Piazza della Loggia è ancora una strage senza colpevoli, quella di stato di suicidi forse non dico un mandante ma almeno un responsabile morale ce l’ha ed è chi la crisi l’ha negata da quando si insediò a Palazzo Chigi nel 2008 e ha atteso tre anni per sloggiare – si spera definitivamente – dalla scena politica italiana.
Scena politica che è dominata negli ultimi giorni dallo psicodramma leghista, dal crollo dell’avventura pugliese di Emiliano e Vendola, dall’ascesa del populismo di Beppe Grillo. Ecco che il Giornale ci offre un’altra straordinaria prima pagina, ieri mattina, con la mamma di Umberto Bossi che rassicura gli italiani che lei le mani al figlio non le ha fatte per rubare. Fa tenerezza questa anziana e arzilla signora di quasi 94 anni difendere il proprio figlio. Ricorda un’altra signora Bossi, la signora Rosa Bossi Berlusconi, che nella scena iniziale di Silvio forever rassicurava l’intervistatore che non si sarebbe trovato mai un fotogramma del proprio figlio in compagnia di qualche donna, perché l’uomo era tutto di un pezzo! Povera cuore di mamma! Anche a 90 anni si pensa che il proprio figliolo sia sempre il cucciolo spaurito da proteggere, incapace di fare azioni che farebbero arrossire a queste povere mamme! La vera tristezza è di questo giornalismo (e di quello televisivo di Porro e Telese poiché su la 7 durante in onda è stata trasmessa l’intervista alla signora Ida Mauri Bossi) che anziché invitare alla riflessione partendo da diversi punti di vista si sfruttino le debolezze umane di persone che non sono personaggi pubblici. Fa tenerezza vedere che la mamma del Senatur abbia difeso il figlio mentre lo stesso – durante il suo discorso di martedì a Bergamo – abbia preso le distanze dai figli, quasi in un mondo alla rovescia, dove le colpe dei figli ricadono sui padri. Che rabbia vedere un padre che accusa un figlio, dopo che lui l’ha infilato in ogni modo dentro quello sporco mondo!
La notizia del weekend ovviamente è stata la scomparsa del centrocampista del Livorno Piermario Morosini, morto sul campo di calcio di Pescara in diretta televisiva. Si sono scritte mille cose, sono state pubblicate tutte le immagini (e per una volta sono anche d’accordo con Mario Sechi, direttore del Tempo, che ha pubblicato la foto più scioccante proveniente dal campo abruzzese) e per chiunque da ragazzino abbia sognato di diventare un giorno calciatore professionista le immagini della morte in campo del Moro sono come un pugno nello stomaco. Ma la cosa più folle è ancora una volta lo spettacolo indecoroso che viene dato successivamente a tragedie di questo livello. La Federcalcio sospende tutti i campionati nel weekend in segno di lutto: posizione opinabile secondo alcuni, come ad esempio quella che ha riportato sul suo blog su ilfattoquotidiano.it l’ex direttore dell’ANSA Giampiero Gramaglia. Onestamente non so se sono più d’accordo con Abete e la FIGC o con Gramaglia. Ho la sensazione che nella giustezza dei temi posti dal giornalista, soprattutto riguardo lo scandalo delle partite vendute, però sia andato un po’ fuori tema. Afferma infatti che non si tratta di una tragedia del calcio bensì di una tragedia umana che sarebbe potuta avvenire in ogni luogo:
… Se muore d’infarto – non un incidente sul lavoro, un infarto – un impiegato alla scrivania in ufficio –e succede-, se muore un operaio al tornio in fabbrica –e succede-, se muore un giornalista al computer –e succede-, nessuno si aspetta che tutte le attività del loro settore si fermino …
A me sembra che qui si sia perduto il senso del limite dei sillogismi e delle elucubrazioni mentali: pensare che ogni lavoro, ogni situazione debba essere gestita allo stesso modo, quasi come fossimo dei robot, mi sembra proprio folle. Forse la Federazione poteva far disputare la giornata di campionato esprimendo in altro modo il proprio lutto? Certamente sì, poteva far giocare col lutto al braccio. Ma per una volta abbiamo visto dei dirigenti sportivi prendere delle decisioni immediate e in un Paese dove tutti hanno paura di prenderle, nel timore delle reazioni e dei sondaggi di popolarità, questo è un bene. Ha sbagliato Abete? Boh, non saprei: sono sopravvissuto ad una domenica senza calcio. So solo che per la prima volta un presidente della massima federazione sportiva italiana (con buona pace delle federvolley, federbasket e via dicendo) ha sospeso una giornata di Serie A mentre i campioni d’Italia in carica erano a San Siro a riscaldarsi (e la squadra non è del commendator Brighella bensì di Silvio Berlusconi) e si stanno giocando un altro scudetto con la Juventus della Famiglia Agnelli, finora la più potente famiglia industriale italiana.
Come raccontavo prima, chiunque abbia calciato un pallone sotto casa nella vita, prova un’emozione particolare alla vista di questo ragazzo di 25 anni che si accascia e muore in campo: chiunque avrà immaginato di calcare il terreno del proprio stadio, pensando di fare goal magari allo scadere alla squadra rivale o per chi aveva dei piedi non proprio dotati come il sottoscritto, magari di evitare una rete all’ultimo minuto e salvare risultato, campionato e pelle! La morte di un giovane calciatore riporta quindi in ciascun amante del calcio alla propria dimensione infantile, al romanticismo del gioco della palla, quando le telecronache sono inventate da te stesso nel corridoio di casa e immagini di aver sofferto per 90 minuti interi prima alzare quella sognata ed immaginata coppa. Ma Piermario Morosini non era un ragazzino che giocava a calcio nel cortile sotto casa mia dove ho trascorso dodici meravigliosi anni di street football. Il Moro era un calciatore professinista, uno che per mestiere giocava a pallone, che era arrivato a giocare in serie A, nella Nazionale Under ’21 e che probabilmente sognava che nel corso dei cinque-sei anni di carriera che gli mancavano, prima dell’inevitabile declino agonistico che prende tutti i calciatori dai 30 anni circa in poi, raggiungesse qualche altra soddisfazione e chissà magari di tornare nella Massima Serie Calcistica.
Era quindi Morosini un lavoratore dipendente della società di calcio Livorno, società per azioni, come siamo moltissimi in Italia ad essere dipendenti di una società, di capitali o di persone, alle dipendenze di qualcuno. Certo Morosini faceva un mestiere particolare, molto invidiato, ma che era sempre il proprio lavoro. Così ho letto con molto interesse le riflessioni di Vittorio Zucconi sul suo blog proprio sabato sera:
Ma quel ragazzo di 26 anni, Piermario Morosini, ucciso da un attacco cardiaco mentre giocava una partita di serie B, è anche lui un caduto sul lavoro o no? Il fatto che giocasse al pallone per vivere, anziché arrampicarsi su un’impalcatura o scavare fossati e che guadagnasse, (per il momento, perché tra pochi anni, ancora trentenne nessuno lo avrebbe più pagato e i suoi sogni di ex Under 21 già si stavano dissolvendo) certamente molto più di un muratore o di un metalmeccanico, rende la sua morte sul lavoro meno tragica? Può essere, un giovanotto che rincorre una palla, uno sfruttato anche lui o il momentaneo livello alto di reddito giustifica ogni trattamento da parte dei padroni e assolve noi spettatori che, in cambio di quei soldi pretendiamo che ci intrattengano sempre, anche quando per continuare a correre devono essere riempiti di porcate, ricuciti, pompati di antinfiammatori e di antidolorifici che coprono – senza risolverla – la patologia sottostante?
Come molti sapranno stimo moltissimo Zucconi e amo tantissimo il suo stile giornalistico e la provocazione che ha lanciato è stata come un sasso nello stagno, provando a catena delle reazioni, alcune di commozione, altre di autentica rabbia sociale.
In uno dei commenti – al quale l’inviato di Repubblica ha anche risposto – un lettore ha così risposto all’intervento del giornalista e dei primi frequentatori dell’arena:
Ancora con questa storia che la carriera lavorativa di un calciatore dura dieci-quindici anni. Una panzana, perchè quando smettono l’attività agonistica si reinventano comunque allenatori, osservatori, dirigenti e uomini immagine nello stesso ambiente, oppure imprenditori, ristoratori, commercianti o assicuratori, per non dire dei più ricchi, semplicemente dei nababbi vitelloni, come Vieri o Ronaldo. Pensare che un giovane di trentacinque anni o giù di lì chiuda la sua esperienza lavorativa con la fine della parabola agonistica è semplicemente una minchiata. E comunque, sfruttati o no, i calciatori, anche di serie C, guadagnano molto meglio di un qualunque lavoratore dipendente o autonomo.
Questi commenti mi recano un’enorme tristezza perché pongono a unità di misura di ogni cosa e di ogni contesto il denaro: se tu sei un caduto sul lavoro che guadagni due lire hai diritto ad essere pianto. Altrimenti no. Non voglio entrare nel merito della questione degli stipendi dei calciatori, sebbene il commentatore di Zucconi viva evidentemente sulla luna (basti osservare che tutti gli stipendi pagati dal Catania Calcio non credo facciano un ingaggio di Ibra a Milano), però non è la prima volta che sulla rete l’astio nei confronti di chi guadagna di più e l’ossessione per gli stipendi degli altri abbia una risonanza così elevata. L’interrogativo che pone Zucconi infatti mi sembra azzeccato: è un morto sul lavoro il povero Morosini? O il momentaneo alto reddito lo svincola da tale categoria? Se un imprenditore o un industriale si dovesse accasciare per lo stress durante la negoziazione di un importante affare per sé e per la propria impresa e spirare sul tavolo del negoziato, avrebbe lo stesso diritto ad essere considerato un morto del lavoro, sfruttato dallo stesso sistema del quale fa parte, o invece il fatto che sia formalmente dalla parte dei padroni e dello show business gli toglie ogni diritto alla sua salute, che diventa per lui merce di scambio per il successo mentre per l’operaio o il muratore è un diritto salvaguardato dalla Costituzione?
Ho l’impressione che la società italiana sia ormai come ossessionata dai soldi e da quanto guadagnano gli altri: tutto ciò è comprensibile perché l’assenza di meritocrazia in ogni aspetto della vita pubblica e sociale del Paese fa sì che si raggiungano dei livelli di reddito non in base alla propria bravura, al proprio talento, alla propria correttezza ed alla propria dedizione. Ma si raggiungono in base alle frequentazioni, alla famiglia, all’amante. Sicuramente chi frequenti, la famiglia, chi ti porti a letto sarà importante anche negli altri Paesi, ma il livello di corruzione in Italia fa sì che da noi sia sistema e non eccezione, rendendo tutta la società ingiusta e rancorosa nei confronti di chi possiede di più.
Naturalmente la stessa tragedia di Morosini non poteva concludersi senza scendere nel ridicolo della ricerca del capro espiatorio (il vigile che ha parcheggiato la vettura che ha ostruito l’ambulanza), le società calcistiche che non riescono a mettersi d’accordo su un quesito di importanza vitale per il paese (recupero o slittamento del campionato? Altro che Amleto, eh?) e network televisivi che riempiono il palinsesto di medicina sportiva (ieri su SKY!).
Per fortuna nel frattempo qualcuno si è ricordato delle tragedie personali del calciatore e proverà ad aiutare la sorella gravemente disabile. Almeno speriamo!
Per non farci mancare niente nella fine settimana della follia italica è intervenuto su Facebook anche Vasco Rossi, ormai scatenato sul più famoso social network del pianeta.
Il Blasco ha pubblicato una sorta di autobiografia a rate, riflettendo sulla sua vita artistica. I vari media hanno riportato le opinioni della rock-star italiana sui suoi colleghi: a me hanno fatto venire una profonda malinconia. Mi chiedo che bisogno abbia un musicista del calibro di Vasco Rossi di insultare colleghi che semplicemente fanno un altro tipo di musica o che utilizzano diversamente il talento che madre natura ha dato loro.
Quando incontri un Baglioni, insomma, che per te impersona… che per te è l’emblema… delle musichette da sala d’attesa… Con testi che non raggiungono neanche il livello dei peggiori discorsi sul più e sul meno, infarciti dei soliti luoghi comuni, come quelli che si fanno per ammazzare il tempo quando si sta in fila alle Poste o che fanno tra loro le signore dal parrucchiere durante una messa in piega…
Ora io credo che Claudio Baglioni si sappia difendere da solo ma mi domando cosa siano per Rossi i soliti luoghi comuni che si fanno per ammazzare il tempo in fila alle Poste o le signore dal parrucchiere … Anche perché se da un lato prendi in giro la maglietta fina, il passerotto non andare via o la vita è adesso, non è che il pulpito che sta parlando è Dante Alighieri …
Bevi la coca cola che ti fa bene
Bevi la coca cola che ti fa digerire
Con tutte quelle, tutte quelle bollicine
Coca cola si, coca cola me mi fa morire
Coca cola si, coca cola a me mi fa impazzire
Per non parlare della posizione su Piero Pelù: premetto che a me l’ex cantante dei Litfiba non mi piace molto ma mi piacerebbe chiedere a Vasco Rossi cosa avessero invece i suoi gorgheggi in Va bene, va bene così di così tanto speciale e così straordinariamente rock!
A me fa un’enorme tristezza che un musicista di 60 anni (Vasco Rossi è un grande musicista, bando agli equivoci) non comprenda come ad un certo punto della propria parabola artistica, quando ovviamente sei di un’altra generazione e l’inverno della vita ormai è alle porte, anziché vivere con astio e attaccare chi non ti ha attaccato, sarebbe il caso di fare come quel suo straordinario collega, di una decina d’anni più anziano, che non ha esitato a mettersi in gioco e si è accontentato di un ruolo di comprimario e direttore di orchestra di un giovane cantante italiano, per far sì che chi possiede un’arte ad un certo punto della propria esistenza provi a trasmetterla ad altri, perché è un modo di vivere eternamente.
Quel musicista era Lucio Dalla.
p.s. per fortuna che lo schizofrenico weekend italiano si sia concluso con Roberto Benigni e quella bellissima storia sull’anatroccolo della sua mamma. Ancora una volta il giullare toscano è riuscito a commuovere e a far ridere raccontando un storiella che sembra più la fiaba della nanna che una storia vera.