Il mio ventennio

 In POLITICA

Viva l’Italia, viva la libertà“: Silvio Berlusconi ha terminato così il suo videomessaggio di ieri sera alla Nazione, probabilmente l’ultimo da Palazzo Chigi. Durante l’ultimo weekend ho riflettuto su cosa sia stato – per me e per la mia vita – questo ventennio che  probabilmente passerà alla storia per un solo protagonista indiscusso della scena politica italiana. Guardando la folla festante in Piazza del Quirinale, i contestatori a Palazzo Grazioli, le scomposte reazioni di politici e ministri in uscita, si è consolidata in me la convinzione che la fine di questa esperienza di governo è in realtà la conclusione degna di una ventennale partita di calcio, giocata sulla pelle degli italiani. Come Massimo Gramellini sabato sera ha affermato, nel suo intervento su Rai Tre, il Cavaliere ha di fatto trasformato l’intero paese in un immenso stadio, con i cori e il tifo più bieco e più umiliante.

Ed è surreale che il Presidente del Consiglio ancora in carica se la sia presa: quante volte ha insultato gli elettori avversari (ricordate il “coglioni” durante la campagna elettorale del 2006?) o Romano Prodi che, caduto al Senato dopo la prima compravendita della storia del Parlamento, veniva sbeffeggiato da Nino Strano, odioso esponente adesso del FLI e nuovamente a Palazzo Madama, mangiando la Mortadella in aula? E come dimenticare le barzellette su Rosy Bindi, l’attacco personale alle istituzioni di garanzia, il Tricolore come carta igienica (da parte del suo amichetto Bossi)? E Brunetta e la sua “Italia peggiore“? E Sacconi e la sua barzelletta sulle suore?

Silvio Berlusconi ha ancora una volta ieri sera rivendicato la sua battaglia per la libertà e che non si ritirerà fino a quando la battaglia non l’avrà vinta. Ora naturalmente tutti ci auguriamo che la prossima campagna elettorale non veda il solito referendum sulla sua persona: speriamo ardentemente che non si candidi più. Tuttavia questo ritornello sulla libertà diventa stucchevole. Per certi versi il ventennio berlusconiano è stato probabilmente il più libero che si ricordi. Al di là di slogan elettoralistici come “vietato vietare” o “è permesso tutto ciò che non è vietato“, che sarebbe stato interessante, linguisticamente parlando, capire come sarebbero stati declinati nella Costituzione, appare evidente che la libertà alla quale agogna il nostro quasi ex Primo Ministro è la libertà di fare “un po’ come cavolo ci pare“. Che non è quindi libertà bensì confusione, anarchia, sopruso del più forte sul più debole.

La libertà, per essere tale per tutti, deve essere in qualche modo limitata: dalle leggi, dall’educazione civica, dal rispetto reciproco. La libertà del Cavaliere “non termina dove comincia quella del prossimo” bensì è assoluta, se ne infischia delle regole comuni e piega al proprio tornaconto anche le leggi fondamentali della convivenza. Pertanto in nome della libertà, dell’etica e della coscienza si arriva a teorizzare che un essere umano in stato vegetativo, una donna che porta il nome di Eluana Englaro, sia ancora tecnicamente in grado di procreare, di dare vita, senza forse nemmeno aver visto un essere umano nelle condizioni della povera ragazza lombarda.

Così in nome della sovranità popolare, di chi ha vinto le elezioni e che può quindi far tutto, si arriva a votare un conflitto di attribuzioni, innanzi la Corte Costituzionale, fra la Camera dei Deputati e la Procura di Milano, sostenendo, in barba a intercettazioni, confessioni e deposizioni, che Silvio Berlusconi aveva realmente chiamato in questura per evitare un incidente diplomatico con l’Egitto di Mubarak. Il Parlamento, espressione della sovranità popolare, è stato piegato e svilito ad uso ed esclusivo consumo del Presidente del Consiglio.

La libertà di Berlusconi si traduce nella facoltà – per chi vince le elezioni – di fare quello che vuole – ed ecco che vengono piegate le regole parlamentari, le garanzie alle opposizioni; si cerca di limitare il potere di controllo per eccellenza, quello della libera stampa, si occupano militarmente televisioni e telegiornali. Diviene quindi perfettamente normale, in questo contesto, che un Premier telefoni ai telegiornali e alle trasmissioni televisive condotte da fidati giornalisti, chiedendo elezioni anticipate (la mattina, mentre la sera già stava cambiando idea non appena resosi conto che le azioni della sua azienda, la sua roba, stavano crollando!) in nome del Popolo sovrano, dimenticando che la sovranità del popolo si esercita nel rispetto dei limiti imposti dalla legge ed in primis dalla Costituzione.

E la cosa diventa ancora più surreale per le argomentazioni: certo le elezioni sarebbero più “igieniche“, diventerebbero una sorta di lavacro e consentirebbero al vincitore di avere un pieno mandato popolare per attuare il proprio programma. Ma non si può sposare questo principio, forzando la Costituzione, soltanto quando conviene. Nel 2008 Romano Prodi cade in parlamento e Franco Marini non riesce a fare un Governo istituzionale. Ci sono le elezioni anticipate e rivince Berlusconi. Il 14 dicembre 2010, quando Berlusconi alla Camera si salva per miracolo (e per prebende), nessuno nel centrodestra sente il bisogno “morale” che aveva avvertito due anni prima e che avverte in questi giorni di fine 2011 che il capo non ha più la maggioranza.

Se la sovranità appartiene al popolo senza limiti, come il centrodestra proclama, non sarebbe stato più opportuno votare all’inizio di quest’anno dopo che il voto della Camera alla fine del 2010 aveva sancito l’uscita dai finiani dalla maggioranza e l’invenzione di un nuovo gruppo parlamentare con un personaggio del calibro di Scilipoti? Il famoso concetto del ribaltone funziona forse a corrente alternata?

In realtà mai come negli ultimi venti anni è stata abusata e violentata la parola “libertà“.

Durante la scorsa settimana, che ha cambiato il corso della legislatura e della nostra storia recente, mi è venuto in mente un episodio personale, con i miei amatissimi nonni, seduti insieme a me nella cucina di casa mia.

Ricordo che la mia mamma era venuta a mancare da poco e con i miei nonni ormai si trascorrevano molte ore insieme, stretti ancor di più per superare quel dramma familiare. La nostra tavola era il centro del confronto e del racconto, ci si raccontava la giornata, si commentavano gli eventi. Ricordo che una sera, durante la stagione di Mani Pulite, ascoltammo dai telegiornali l’ennesimo “bollettino di guerra” provenire dal Palazzo di Giustizia di Milano. Mia nonna, grandissimo talento con ago e filo ma soltanto con la quinta elementare, ricordava con nostalgia il periodo del Duce, sebbene non fosse affatto fascista, nostalgia forse legata anche al periodo della sua infanzia e poi gioventù (nacque a fine 1922). Davanti all’ennesimo TG farcito di mariuoli, di furti, di sangue commentò sprezzante “mancu duranti lu fascismu capitavanu sti cosi. Si puteva dórmiri cche finestri e cche porti aperti e nun succideva nenti. Non ni mancava nenti“. Mio nonno, antifascista e anticomunista fino al midollo, democristiano tutto di un pezzo, partigiano e vivo per miracolo (o per pura fortuna), corresse la moglie dicendo “Maria, però non c’era la cosa più importante, non c’era la libertà“.

Ecco io credo che questo ventennio abbia avvelenato i pozzi del linguaggio e del buonsenso.

Abbiamo un Antonio Di Pietro che accomuna la caduta di un Governo legittimo e democratico come quello di Berlusconi alla caduta dei regimi del nord Africa, dimenticando che i dissidenti – di quei regimi – non avevano la libertà di parlare, di scrivere, di postare video su youtube, come invece l’ex PM di Milano correttamente e democraticamente fa. E sentire parlare di mancanza di libertà Silvio Berlusconi, proprio lui che ha fatto con il suo monopolio televisivo il peggior servizio che poteva essere fatto allo sviluppo delle libertà individuali e sociali, è l’altra faccia della stessa medaglia, l’altra curva del nostro stadio.

Questo ventennio non è stato affatto né illiberale né un regime: è stato un grande casino, un bordello, un enorme Colosseo dove abbiamo tutti combattuto gli uni con gli altri, di fronte ad un imperatore televisivo che nel frattempo si arricchiva, piegava le leggi per non farsi processare o per farsi cancellare qualche (a suo avviso) marachella che il codice prevedeva come reato!

Certo è troppo facile adesso scoprire che sì forse Silvio ha un tantino esagerato, abbandonarlo adesso sembra veramente un tradimento. Si dimentica in fretta che in realtà la politica del centrodestra è stata, in tutti questi anni, un enorme set televisivo. Basti solo pensare a Forza Italia, un partito nato con le tecniche del marketing pubblicitario di Publitalia, che celebrò il suo primo congresso nel 1998, ben quattro anni dopo la nascita dello stesso partito. Si pensi a come è nato il partito attuale di Berlusconi, il PDL, su un predellino di un autoblindata, probabilmente solo per reazione alla nascita del Partito Democratico all’epoca al Governo. Pensiamo alle scenografie di Palazzo Chigi, ai vulcani artificiali a Villa Certosa, ai festini, alle gaffes internazionali e al Bunga-Bunga. Si pensi all’inno del partito di Berlusconi “Meno male che Silvio c’è“: un ventennio in cui gli interessi e le vicende personali di un solo uomo si sono a tal punto confuse con quelle della Nazione che non riusciamo nemmeno più a vederne i confini.

Questo ventennio è stato per me una vero tormento: ho cominciato ad interessarmi di politica nei primi anni del Liceo, in una zona dell’Italia, il catanese, in cui l’influenza di Andreotti e della sua componente democristiana era enorme. Mano a mano che sono cresciuto le mie posizioni si sono in un certo senso radicalizzate, con i piedi ben fermi nella democrazia occidentale. Ho votato Partito Comunista Italiano soltanto una volta, poi gli cambiarono il nome (il primo di una lunga serie) e sembrava che finalmente anche in Italia ci potesse essere un partito sul modello del Democratic Party americano o del Labour Party britannico. Sognavo una vera democrazia dell’alternanza e dell’impegno, ammirando la SPD tedesca e il PS francese. Mi piaceva la velocità con la quale si conoscevano vincitori e vinti in USA e in Inghilterra. Mi piacevano i collegi uninominali dove il rapporto elettore-eletto è più stretto. Restavo affascinato dalle primarie americane e dal sistema westminster, che senza una costituzione formale, funziona in maniera impeccabile soltanto con prassi e consuetudini che derivano addirittura dalla Magna Charta. Noi qui in Italia avevamo i partiti dello zero virgola, tutti vincevano le elezioni e governava sempre la Democrazia Cristiana in accordo con tre o quattro partiti. A seconda del peso ottenuto dalle varie correnti democristiane avevamo governi più spostati a sinistra o governi più conservatori.

Nel frattempo Bill Clinton vinceva le elezioni americane aprendo la strada alle vittorie progressiste di Tony Blair nel Regno Unito e di Gerhard Schroeder in Germania. Sembrava che potesse nascere veramente un nuovo concetto di sinistra, di redistribuzione dei redditi, di economia sociale applicata al capitalismo.

Poi nel 1994 fu chiaro immediatamente che l’Italia prese un’altra strada, rispetto ai suoi partner europei e mondiali. La famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi, il set a Villa Macherio, la calza sulla telecamera, lo speech così suadente ci porto immediatamente nel mezzo del peronismo all’italiana, la scelta non più fra i programmi e le idee, bensì fra la fedeltà all’uomo della Provvidenza, all’Unto del Signore (come blasfemamente si definì) e gli altri, quelli che venivamo sempre dipinti come “comunisti” (neanche fosse un insulto, dato che in Italia il PCI, dopo il triste appoggio ai Fatti di Ungheria, si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato, anziché nel freddo della Piazza Rossa di Mosca), i portatori di “odio“, contrapposti ai messaggeri del’amore.

Mi sono scervellato mille e mille volte per capire come diavolo sia stato possibile che gli italiani non vedessero ciò che per me era cristallino. Con il passare degli anni ci siamo completamente assuefatti all’anomalia per eccellenza di Silvio Berlusconi: il conflitto fra interessi privati (legittimi) e interessi pubblici. Chiunque abbia frequentato gli Stati Uniti d’America o il Regno Unito, chiunque abbia chiacchierato con qualcuno dei paesi più avanzati, democraticamente parlando, del pianeta si è reso conto dell’incredulità che c’è all’estero non tanto per il comportamento un po’ bizzarro di Silvio Berlusconi, bensì per la capacità del popolo italiano di averlo sopportato per tutti questi anni. Ricordo che durante una festa di famiglia  mi fermai a discutere animatamente con un mio zio, berlusconiano di complemento, una sorta di testimone di Geova per quanto avesse i paraocchi, che affermava l’impossibilità che Berlusconi non facesse il bene pubblico poiché, in quanto ricco, non aveva bisogno di “rubare“, non come quelli di prima. Non voleva proprio vedere che fra quelli di prima vi era Bettino Craxi, dal quale Silvio Berlusconi ricevetti in dono il suo primo provvedimento legislativo ad personam. Non riusciva mio zio, e con lui migliaia di altre persone, a comprendere che il problema non era se fosse onesto o meno, quanto il fatto che in democrazia non bisogna dare il pretesto affinché ci sia il minimo sospetto che tu faccia i tuoi affari.

Non c’è stato nulla da fare: in questi venti anni, drogati dalla televisione commerciale e dalla sterilizzazione della televisione pubblica, ci siamo bevuti la favola dell’imprenditore, del “ghe pensi mi“,  affidando ancora una volta, all’Uomo della Provvidenza, il compito di farci arricchire, di farci vivere nel benessere (noi diseducati al benessere, come disse Silvio dei poveri).

Adesso dopo quasi venti anni cala – forse – il sipario su questo spettacolo indecente che abbiamo dato al mondo: quanto bisogno di normalità e di sobrietà ha il nostro Paese. Che sensazione pacifica è stata vedere Mario Monti andare alla Stazione Termini a prendere la moglie. Ma il difficile viene adesso perché come Pier Ferdinando Casini spesso sostiene la presenza del Cavaliere è stata un alibi per tutti, soprattutto a sinistra dove si è anche tenuto in vita questo conflitto di interessi, quasi come se l’esistenza della sinistra italiana vi fosse soltanto in funzione della presenza di Berlusconi dall’altro lato dello schieramento politico.

È giunto il tempo per la nostra società di sostenere gli esami di maturità, senza più scuse né scusanti, assumendoci finalmente la responsabilità delle nostre azioni, senza demandare a chicchessia di agire per conto nostro. Non sappiamo se il berlusconismo sia veramente terminato o stia per finire: ho molti dubbi, soprattutto derivanti dal fatto che si alimenta delle nostre più basse pulsioni: l’egoismo e l’ignoranza. Ciò che mi auguro, per la mia bambina e per la nuova generazione di italiani alla quale lei appartiene, è che – dopo questo ventennio – la società italiana non si beva più le favole della buona notte da nessuno populista. Auguro a noi e ai nostri figli che dopo questa sbornia, che ci costerà parecchio in termini economici e sociali, si riesca finalmente a ritrovare la voglia di cercare nuove strade, nuovi modelli di sviluppo, sfruttando le nuove tecnologie come elemento imprescindibile di democrazia, spegnendo una volta per tutte la vecchia televisione e imparando finalmente a tifare  non contro la squadra avversaria ma per la nostra squadra del cuore.

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