Verso la periferia
Stamattina sulle lettere dei lettori a Corrado Augias e alla redazione de “la Repubblica” ce ne era una, di un certo Francesco Vallone, trentacinquenne calabrese da sei anni trapiantato in Irlanda dove lavora per la Barclays. Il giovane meridionale (come chi scrive), ha una figlia di due anni e vorrebbe rientrare in Italia.
Il problema del “ritorno a casa” lo capisco perfettamente: chi come me è un “emigrante forzato” accarezza il sogno di ritornare a casa propria e tra i propri affetti ogni volta che poggia la testa sul cuscino. Lì con gli occhi chiusi si pensa sempre a quanto sarebbe bello risvegliarsi sul proprio letto e gustarsi la prima colazione di fronte al proprio familiare panorama (ho la cucina che si affaccia proprio davanti all’Etna e mi manca molto gustare una granita e brioche o sorseggiare il caffè davanti alla mia “montagna“).
L’episodio raccontato da Vallone è surreale: avere un CV eliminato da una selezione è perfettamente normale e fa parte delle regole del gioco. Ma essere scartati perché il documento inviato ad un’agenzia di recruitment in Italia, nell’anno del Signore 2011, è compilato in inglese, con una motivazione come quella riportata nella lettera “Apprezziamo lo stile, ma visto che chi raccoglie i dati è un’italiana che non parla inglese, e visto che questa è l’Italia rinvii il tutto in lingua indigena, per ora il suo CV è stato eliminato. Cordialmente” risulta francamente surreale.
È però esemplificativo del concetto che si ha in Italia dello studio e della padronanza delle lingue straniere ed in particolare della lingua inglese.
Vi racconto un episodio: nella scuola dove la mia bimba sta compiendo i suoi primi passi nel mondo dell’istruzione vi era, fino allo scorso anno scolastico, un modulo per l’insegnamento dell’inglese ai bimbi della scuola dell’infanzia. Anzi ufficialmente il modulo parlava di “lingua comunitaria“, come se non si volesse mai ammettere che, con buona pace dei francesi, degli spagnoli e dei tedeschi, i loro idiomi devono venire – per forza di cosa – al secondo posto, nell’apprendimento e nell’insegnamento di una lingua straniera, dopo l’inglese.
Quest’anno, probabilmente, tale modulo verrà sostituito da un qualche modulo con attività motoria, come se i bambini dai tre ai cinque anni avessero difficoltà a “muoversi“, dato che se raggiungono un massimo di cinque secondi di staticità in una stessa posizione è un record universale!
Chiacchierando con una mia amica, con più esperienza di me in ambito scolastico, avendo lei un figlio alla scuola primaria, apprendo che le scuole sono in difficoltà con i moduli di inglese poiché sembra sia difficile insegnarlo ai bambini!
Sono scoppiato a ridere perché nella mia vita etnea sono cresciuto a stretto contatto con una famiglia per metà italiana e per metà americana e i loro figli hanno appreso alla perfezione la lingua di Dante e quella di Shakespeare! Non solo: la mia piccola Elisa ha tra i suoi compagnetti di giochi e di scuola due bambine di madrelingua russa, un bimbo di madrelingua rumena, un bimbo figlio di bengalesi, e che probabilmente parla sia il bangla che l’inglese, e una bimba macedone. Fra loro si capiscono perfettamente!
Spesso le facciamo guardare i cartoni animati in lingua inglese e alcuni di questi cartoni sono già bilingue (italiano/inglese per la nostra TV, inglese/spagnolo in lingua originale per il mercato statunitense). In California Elisa ha giocato con bambini di qualunque etnia, colore e lingua e annuiva quando le si faceva una domanda; quando sfoglia il suo libro preferito, quello dove c’è la sua “amichetta” Dora the Explorer, simpaticissimo cartone bilingue su un’emittente satellitare, le si rivolge con un “Hi Dora!“. Ha nemmeno tre anni, non sa come si scrive né “ciao” né “hi” però aveva perfettamente capito che quando si entrava in un negozio – in USA – si diceva “hello” e quando si usciva si salutava con “Bye” e lei ripeteva, tranquillamente e simpaticamente! E quando il proprietario di un Drugstore, vicino la Death Valley, le voleva rubare – scherzando – il suo dolcetto al cocco, chiedendole truffaldinamente “is it mine?“, Elisa mi ha guardato e ha scosso la testa dicendo “no“. Aveva perfettamente compreso dal contesto il gioco di quel signore così diverso da quelli che abitualmente frequentava (era scuro di carnagione essendo di origini arabe e parlava inglese).
Quindi forse il problema non è che non esistono strumenti per far apprendere ai nostri figli la lingua inglese: è che noi in Italia siamo veramente pigri sul tema ed anche sprovvisti di fantasia. In una scuola dell’infanzia la soluzione migliore sarebbe quella di cercare un insegnante madrelingua, possibilmente con esperienza nelle scuole dell’infanzia di paesi anglofoni, che abbia quindi familiarità con quella particolare età evolutiva quando i bambini sono delle spugne e apprendono di tutto (parolacce comprese!).
Mica devi insegnare ai bambini i verbi irregolari, le coniugazioni o metterli in guardia con i false friends. Avranno tempo di tradurre of course con di corsa, in uno dei più comuni errori di interpretazione degli studenti delle medie e del liceo dei miei tempi.
Invece no, si preferisce l’attività motoria! Mi sembra di essere tornati al Ventennio!
Nella lettera del giovane calabrese c’è invece l’altro aspetto del nostro provincialismo: l’ignoranza che si fa arroganza, che si permette di rispondere con irridente ironia ad un giovane che si candida per un posto di lavoro. Non conosco il signor Vallone, non so se sia un cervello o meno, ma è uno di quegli emigrati che vorrebbero tornare nel proprio Paese ma che questo nostro amato e odiato Stivale respinge indietro, con un’arroganza e una violenza da far incazzare anche la più mite pecorella. E questa addetta ai CV dell’agenzia di selezione del personale (il prossimo che trovo che mi traduce recruitment con reclutamento lo denuncio!) oltre che cambiare mestiere avrebbe dovuto anche imparare un po’ di galateo, perché chiudere una lettera così arrogante con un cordialmente, quando cordiale non lo sei stata, denota anche un po’ di scarsezza di educazione!
L’assenza di politiche scolastiche per l’apprendimento della lingua inglese e il provincialismo di larga parte della nostra società costituiscono un mix terribile per confinare ancora di più il nostro paese ai confini del mondo, in una periferia autoreferenziale, condannando i più giovani alla marginalità del mondo e dei loro coetanei che nel frattempo invece vanno avanti e si integrano.
p.s. Per fugare ogni dubbio di chi possa ritenermi un esterofilo o un anglofilo ci tengo a sottolineare che amo moltissimo la lingua italiana, la ritengo la più bella e la più completa del mondo neolatino. Non esiste altra lingua che sia così musicale come la nostra (ci sarà una ragione se da noi si è sviluppato il melodramma e nei paesi anglofoni il rock, con tutto il rispetto per questo ultimo), così ricca di vocaboli e di costrutti, così rimasta vicina alla lingua latina, pur accettando ed inglobando contaminazioni dagli altri idiomi. Ma da qui a non comprendere che l’inglese è il latino dei nostri tempi, la lingua franca degli scambi culturali e commerciali, ce ne vuole! E soprattutto bisognerebbe far capire alla gente che i bimbi di oggi, e in misura minore anche gli adulti, possono tranquillamente convivere con due o più lingue conosciute o parlate. Cosa che peraltro avviene già in qualunque famiglia italiana che proviene da regioni dove il dialetto è più vicino ad una lingua che a una parlata.