La ricerca dell’infelicità

 In POLITICA

Negli ultimi 20 giorni – nonostante mi trovassi in Sicilia e non a Bora Bora, ahimè! – mi sono volontariamente autosospeso dall’informazione italiana e straniera, una sorta di disintossicazione forzata dalle mille sorgenti informative che ormai ci bombardano il quotidiano.

Con la sola eccezione del weekend di Ferragosto, quello dell’ennesima manovra varata dal governo, non ho comprato quotidiani, non ho ascoltato telegiornali, ho letto pochissimo i blog e i siti, giusto per una veloce informazione di servizio, per le previsioni del tempo!

Tra i blog che seguo vi è My Tube, blog di Enrico Franceschini, corrispondente de “la Repubblica” da Londra,  che ieri ha inserito questo post.

Le famiglie inglesi – stando al rapporto di Relationship Foundation – sarebbero quasi le più infelici d’Europa, seguendo in questa triste classifica solo quelle rumene e bulgare.

Aggiunge il giornalista di Repubblica che a determinare questo alto livello di infelicità siano diversi fattori: “Alti livelli di debito e povertà, lunghi orari di lavoro, case misere dove talvolta mancano perfino i servizi di igiene, gravidanze minorili, disfacimento sociale”.

Continua poi con alcuni esempi:

” il 14 per cento delle famiglie britanniche soffrono di “livelli critici” di indebitamento, rispetto all’1 per cento in Svezia, Finlandia e Norvegia. Ancora: 340 mila famiglie britanniche abitano in case senza un bagno, una doccia o la toilette, un numero 12 volte più grande di coloro che si trovano in condizioni analoghe in Scandinavia, Germania o Spagna, afferma il rapporto.”

Ora mi vorrei soffermare non tanto sulle case britanniche che sono storicamente differenti dalle nostre ma sugli altri fattori: alti livelli di debito e povertà, lunghi orari di lavoro, disfacimento sociale.

Quello che fa riflettere è che questi fattori di rischio si stanno rapidamente diffondendo anche in altre società, diverse ad esempio per cultura. Se è vero che le famiglie italiane erano una volta molto più formiche delle altre e avevano il risparmio come salvaguardia delle finanze domestiche, adesso le stesse famiglie non riescono più a mettere da parte nemmeno una bassa percentuale del proprio reddito mensile. Inoltre le stesse hanno visto impoverito il loro potere di acquisto – specialmente nell’ultimo decennio – in modo spaventoso: e se una volta si arrivava a fare le rate per pagarsi la macchina nuova, la TV, i condizionatori d’aria e via dicendo, adesso anche i consumatori italiani si stanno spingendo nella rateizzazione o quanto meno nel taglio drastico di spese di prima necessità. Franceschini da Londra legge questi dati come una delle chiavi di lettura delle violenze che si sono abbattute nel Regno Unito qualche settimana fa, ma il rischio è che si contagi anche ad altre società continentali se non riusciamo a produrre politiche familiari e sociali più protettive. Probabilmente stiamo assistendo al definitivo tramonto della terza via, incarnata dalla dottrina politica di Blair in UK e di Clinton in USA, e diventa necessario – per contrastare la nuova povertà – che le sinistre propongano delle nuove soluzioni di protezione sociale e familiare dato che è evidente che il mercato – da solo – non basta più. Altrimenti saranno i più duri conservatorismi a prendere il sopravvento, lasciando alla benevolenza di chi ha di più la sopravvivenza di chi ha di meno.

L’altro fattore che mi colpisce è “lunghi orari di lavoro“: dopo l’euforia di fine anni novanta, quando imperversava il famoso motto “35 ore settimanali” come battaglia delle sinistre in Europa (si ricordi che il governo di Jospin, in Francia, mise per legge tale tetto e Romano Prodi fu sfiduciato da Rifondazione Comunista nel 1998 proprio su questo tema), si sta lentamente ritornando ad un allungamento dell’orario di lavoro, anche grazie a telefonini, computer, smartphone, tablet e via dicendo.

Nonostante la scienza abbia più volte spiegato che il limite delle otto ore giornaliere sia quasi un limite fisiologico alla capacità di concentrazione e apprendimento dell’essere umano, si continua a teorizzare una forzatura di tale limite, spostando sempre più in là il carico di lavoro che ciascuno di noi ogni settimana porta con sé. E tutto questo in un contesto industriale ormai radicalmente diverso rispetto alle fabbriche tradizionali del secolo scorso, in un era in cui la produzione industriale propriamente detta è stata per la maggior parte delocalizzata in paesi che stanno uscendo da un’economia agraria e si stanno organizzando in società industriali, mentre nei paesi cosiddetti avanzati si è in una sorta di economia post-informatica, dove non conta più il lavoro delle braccia ma quello della testa.

Eppure chi fa lavori di “concetto“, a qualunque livello, dalla segretaria al direttore, è soggetto ad un organizzazione del lavoro che rispecchia sempre quello delle fabbriche. Si pensi che il contratto collettivo dei metalmeccanici è il contratto più adoperato per moltissime aziende che di metalmeccanico e di installazione impianti non hanno proprio nulla a che fare. Anziché quindi sforzarsi di trovare una nuovo modello di relazione industriale per situazioni lavorative molto distanti dalla fabbrica, si è preferito adattare i modelli tradizionali, magari chiudendo qualche occhio su alcune rigidità necessarie in fabbrica (ad esempio la timbratura di inizio e fine turno), delegando ad una successiva contrattazione aziendale altri benefici e chiedendo in cambio l’assoluta e totale disponibilità dei lavoratori. Con il risultato che spesso anziché 8 ore al giorno se ne lavorano anche 10-12 arrivando all’assurdo di trascorrere più tempo con estranei e con persone che non ci siamo scelti (come li definisce Simone Perotti nei suoi due saggi sul Downshifting) anziché con la propria famiglia, i propri figli, i propri vecchi, i propri amici.

È di stretta attualità nel nostro Paese il provvedimento del Governo per la sospensione triennale delle festività civili, accorpandole alle domeniche più vicine. Ci hanno spiegato che così aumenta la produttività di sistema! C’è stato anche il proprietario di un’azienda di abbigliamento che ha suggerito a tutti i lavoratori di “regalare” cinque giorni di ferie (una settimana) all’azienda …

La tematica è estremamente complessa e non ho le competenze per un’analisi economica approfondita, certo è che è singolare che un Paese come il nostro rinunci alle tre feste simbolo della propria identità democratica! Sarebbe come se gli Stati Uniti non festeggiassero più il 4 luglio o i francesi lavorassero per l’anniversario della “Presa della Bastiglia” o i tedeschi non festeggiassero più la loro ritrovata unità. Il festeggiamento di alcune ricorrenze serve per tramandare di padre in figlio la memoria storica di una società: l’Italia è antifascista (ecco perché si festeggia il 25 aprile), è una Repubblica (ecco perché si festeggia il 2 giugno) ed è fondata sul lavoro (art. 1 della Costituzione ed ecco perché festeggiamo anche noi il Primo Maggio). E andrebbe forse festeggiato per sempre il 17 di marzo, giornata dell’Unità d’Italia, Festa del Tricolore, anziché pagare ai lavoratori dipendenti una festività soppressa a novembre, per l’anniversario di Vittorio Veneto.

Perché se il problema è solo quello di limitare i ponti perché non negoziare con la Chiesa Cattolica una revisione del concordato per eliminare l’Epifania, il lunedì di Pasqua, l’Assunta, Ognissanti e l’Immacolata? E votare solo di domenica e non di lunedì?

Ma poi siamo proprio sicuri che eliminando i ponti si lavori di più e si produca di più? L’associazione delle aziende del turismo, Assoturismo, associata di Confindustria, insieme con Confesercenti ha stimato che per i tre ponti sopprimendi si perderebbero circa sei miliardi di fatturato del settore turistico, industria trainante del nostro Paese e che semmai dovrebbe essere maggiormente aiutata e valorizzata.

E siamo proprio così sicuri che la ricetta giusta sia quella di lavorare di più? Sono più felici quei popoli che hanno il minor numero di ferie, di congedi parentali, il maggior numero di ore settimanali lavorate? Prendiamo ad esempio gli Stati Uniti, che hanno in media un numero di ore lavorate superiori alle nostre, nessuna maternità garantita come in Italia e il numero di ferie l’anno di gran lunga inferiore e per di più non fissato da nessun contratto collettivo nazionale. L’aumento delle ore, la totale dedizione alle varie corporations non ha forse comportato ugualmente la crisi economica e la grande depressione? Se nelle classifiche di maggior vivibilità figurano città come Vancouver, nel vicino Canada, ove le tutele sociali sono più europee che statunitensi, non vorrà forse dire qualcosa?

Si ha l’impressione che sia ormai necessario un nuovo rapporto fra capitale e lavoro, marxianamente parlando. Sembra infatti che il primo stia avendo il sopravvento sull’altro ma per quanto potrà durare? Il capitalismo come l’abbiamo conosciuto finora probabilmente dovrebbe essere rivisto, corretto, perché non sta funzionando come avrebbe potuto e dovuto, specialmente dopo che il nemico storico, quel socialismo reale e fallimentare, incarnato dall’impero sovietico, non esiste più da venti anni.

E il compito della Politica sarebbe proprio questo: regolare i rapporti di forza fra i mercati finanziari da un lato e i cittadini, e quindi gli Stati, dall’altro. Perché se deleghiamo tutto alla bestia del mercato, al capitale, ai soldi verremo fagocitati da questo leviatano: purtroppo si ha l’impressione che la vera mancanza di cui si sente il bisogno in Italia e in Europa sia una vera classe dirigente illuminata. Non si vedono i De Gasperi, gli Adenauer, i Moro, i Berlinguer, i Mitterand, i Kohl, i Ciampi, i Prodi, i Blair, i Clinton.

Dopo l’illusione di un’unione monetaria bisognava spingere sull’acceleratore verso l’unione politica dell’Europa e invece sono venuti fuori tutti gli egoismi nazionali con il risultato che ogni compromesso raggiunto è sempre stato al ribasso per i cittadini. Per la prima volta, da quando sono state fondate le prime comunità economiche europee, la prospettiva è che i cittadini dell’Unione stiano peggio della generazione precedente. E alcune conquiste sociali di civiltà, che hanno segnato la storia delle rivendicazioni sindacali e progressiste dei decenni scorsi, rischiano di segnare il passo ed essere rimesse in discussione. Si pensi alla riforma del NHS nel Regno Unito, il servizio sanitario nazionale britannico, o gli interventi sui ticket sanitari nel nostro Paese: tutti interventi di riduzione delle protezioni sociali dei meno abbienti, con il risultato che chi è ricco, in confronto a chi è povero, adesso lo è anche di più.

Dal diritto alla  felicità – sancito tra l’altro dalla Costituzione americana – alla realizzazione del suo esatto opposto!

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