Stay Hungry. Stay Foolish.
Nel giorno in cui le Chiese cristiane, che venerano Santi, ricordano la natività di una figura eccezionale quale Giovanni il Battista, si chiude per me l’ultima settimana lavorativa di giugno. La prossima mi prenderò qualche giorno di vacanza e tornerò nella mia amata Catania, riprendendo un po’ lo spirito iniziale di questo blog, nato a “Trentamila Piedi” di altitudine, su un volo Alitalia del 1° marzo 2010 che mi riportava a Roma dopo il fallimento del progetto di rientro in Sicilia, cominciato nell’estate di due anni fa.
Molte cose sono cambiate da allora, la mia famiglia si è riunita di nuovo a Roma, Elisa – la mia bimba – ormai è una bellissima signorinella, che parla tantissimo, ama partecipare alle discussioni ed è curiosa di capire come va questo mondo.
Quello che non è cambiato è la voglia di cercare la nostra strada, il nostro percorso in questa avventura chiamata “vita“: negli ultimi giorni, sulle televisioni italiane sono apparsi due bellissimi pezzi di informazione, uno su RaiTre e uno su ItaliaUno. Nel primo, chiuso da un editoriale di Paolo Mieli, si è fatto un parallelo fra due imprenditori distanti nel tempo, ma vicini come visione del futuro: Adriano Olivetti e Steve Jobs. Nel secondo, sul canale Mediaset, è andata in onda una clip sul fondatore e CEO di Apple Inc. In entrambe le trasmissioni veniva citato lo storico e memorabile discorso che l’imprenditore californiano ha tenuto a Stanford nel 2005, alla cerimonia di laurea di quell’anno.
Ho voluto leggerlo ed ascoltarlo per intero e lo ho riportato qui in una versione sottotitolata in italiano:
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=nFKY8CVwOaU&w=350] [youtube=http://www.youtube.com/watch?v=G3bCOLl_1NE&w=350]Steve Jobs è tra i pochi personaggi pubblici che ammiro molto: di solito sono molto schivo del potere, anzi non sopporto proprio – in qualunque ambiente – la devozione verso una persona potente, che ricopra una certa carica, specialmente quando questa si dà le arie. Non riesco a comprendere come ci possa essere il “culto” di un altro individuo solamente perché questo sia un responsabile, un direttore, un CEO, un Cavaliere, un Presidente. Ammirazione, quindi, non devozione per Steve Jobs. Leggendo le sue parole non posso non constatare di come potessero essere rivolte anche al sottoscritto e a tutti quelli che non hanno mai smesso di cercare e di non pensare di accontentarsi.
Nei due anni difficili che ho trascorso, sospeso sul nostro Stivale, mi sono spesso scontrato con persone anche molto care e vicine perché mi si rimproverava di non volermi mai accontentare di quello che ho o che abbia ottenuto nella mia vita professionale e personale. Riascoltando le parole di Jobs posso dire che “I don’t settle“, non mi accontento.
Jobs parla di tre storie, che grazie alla sua straordinaria capacità comunicativa sembrano più tre parabole per quanto sono cariche di pathos. Ed alla fine di ognuna c’è una massima con la quale mi trovo pienamente d’accordo.
La prima, “unire i puntini“:
“you can’t connect the dots looking forward; you can only connect them looking backwards. So you have to trust that the dots will somehow connect in your future. You have to trust in something — your gut, destiny, life, karma, whatever. This approach has never let me down, and it has made all the difference in my life”.
Mi ha colpito molto quel suo “trust in something“: non ti sta dicendo di confidare nel suo Buddha o nel tuo Cristo, ma di credere in qualcosa, ritenere che ciascuno abbia nella vita la sua irripetibile occasione di fare la differenza. Non siamo pezzi di ingranaggi, numeri di matricole sui libri paga delle aziende o codici fiscali dell’anagrafe tributaria. Siamo unici.
La seconda storia, quella che parla di “amori” e di “perdite” è forse quella più importante da un punto di vista lavorativo. Afferma Steve:
“I was lucky — I found what I loved to do early in life … I had been rejected, but I was still in love. And so I decided to start over …
Don’t lose faith. I’m convinced that the only thing that kept me going was that I loved what I did. You’ve got to find what you love.
And that is as true for your work as it is for your lovers.
Your work is going to fill a large part of your life, and the only way to be truly satisfied is to do what you believe is great work.
And the only way to do great work is to love what you do. If you haven’t found it yet, keep looking. Don’t settle.
As with all matters of the heart, you’ll know when you find it. And, like any great relationship, it just gets better and better as the years roll on. So keep looking until you find it. Don’t settle.“
Ho voluto riportare per intero il testo di questa parte dello speech di Jobs perché è quello che ho sempre sostenuto con vari interlocutori negli ultimi anni. Per essere veramente soddisfatto del proprio lavoro devi amare quello che fai e se non lo ami non devi mai e poi mai smettere di cercare la tua strada, di trovare la tua passione e di coronare i tuoi sogni. Certo Jobs parlava di queste cose a 50 anni quando la sua “estate” volgeva al termine e il suo “autunno” stava cominciando, mentre io ne parlo da quando finì la mia “primavera” – gli anni degli studi – e entrai nella mia stagione “calda“.
E mi rendo conto che in un Paese ultraconservatore come il nostro, dove il “posto fisso” e possibilmente “pubblico” è una della più grandi aspirazioni che un genitore possa avere per i propri figli, un discorso come questo è letteralmente rivoluzionario, rovescia il tavolo e non potrà mai essere accettato. Non mi meraviglio quindi che chi abbia questa “filosofia” di vita sia molto “solo” in realtà: vive una solitudine particolare, non fisica – spesso sono circondati da amici, colleghi e familiari – ma filosofica, psicologica e spirituale.
La terza parabola raccontata da Jobs è quella che mi fa commuovere: parlare della morte come “…the single best invention of Life”. Non ho mai avuto un buon rapporto né filosofico né pratico con il concetto di “morte“. Sicuramente la scomparsa prematura della mia mamma, quando avevo solo 19 anni, è stata probabilmente il concetto più difficile da elaborare e certamente l’evento “spartiacque” della mia vita.
E questo concetto di Jobs, in un altra lingua e con altre parole, è quello che ho sempre sostenuto e creduto:
“Your time is limited, so don’t waste it living someone else’s life. Don’t be trapped by dogma — which is living with the results of other people’s thinking. Don’t let the noise of others’ opinions drown out your own inner voice. And most important, have the courage to follow your heart and intuition. They somehow already know what you truly want to become. Everything else is secondary.”
La consapevolezza che il nostro tempo sia limitato e non possiamo certo sprecarlo aspettando che qualcun altro prenda le decisioni per noi. Bisogna ascoltare il nostro cuore e le nostre intuizioni: solamente ascoltando noi stessi, la nostra coscienza, il nostro cuore che potremo prendere qualunque decisione, fare le nostre scelte. “No matter what they say“, direi io, adoperando le parole di Sting nella sua poetica canzone “Englishman in New York“: spesso rimaniamo intrappolati nel pensiero degli altri, nelle loro aspettative per timore di non deluderle, nel solco che altri credevano fosse giusto per noi.
Ricordo benissimo di una granita consumata ad un bar di Acitrezza, durante l’estate del 1997 – appena laureato: a quel tavolo insieme con alcuni amici e colleghi si discuteva di futuro, ci si lasciava andare a considerazioni sulla “vendibilità” della nostra laurea sul mercato del lavoro. Ora sicuramente sarei uno stolto se affermassi che la mia laurea in Ingegneria non abbia giocato un ruolo su molte possibilità che la vita mi ha dato e su molte soddisfazioni che mi sono preso. Nei primi anni di lavoro ho potuto girare un bel po’, frequentare corsi a Versailles e passeggiare la sera a Parigi, giocare a calcio con colleghi di tutto il mondo a Belfast e avere i denari per fare dei bellissimi viaggi da documentare e raccontare. Ma spesso la nostra cultura si ferma al titolo di studio e guarda con timore e scetticismo chi invece mette in discussione le proprie scelte. Davanti a quella granita affermavo di come non fossi tanto sicuro che quella fosse la mia strada per sempre e che non avrei smesso di “cercare” altro, di “ascoltare” il mio cuore e “vivere” le mie passioni.
Quella granita mi è servita molto per rendermi conto che siamo molto più soli nella vita di quello che spesso pensiamo: possiamo girarci attorno e pensare che avere un grande numero di connections su LinkedIn, di Friends su Facebook o di Followers su Twitter, possa in qualche modo darci la misura di quanto siamo “connessi” nel mondo, di quanto non siamo soli. Ma quando ci troviamo da soli davanti allo specchio, radendoci o truccandoci, è il momento in cui ci facciamo le domande più scomode. E fra queste domande, quella che Steve propone agli studenti è la più feroce “If today were the last day of my life, would I want to do what I am about to do today?”
Perché se la risposta è “yes, I would” nessun problema, siamo “a cavallo” ed il problema è rimandato alla prossima volta che la domanda ci frullerà in testa; ma se la risposta fosse “no, I would not! I’d like to do something else” allora vuol dire che un cambiamento di rotta deve cominciare a esserci.
Non possiamo rassegnarci a vivere una vita che non scegliamo, solo per timore di vivere quella che vorremmo, magari più rischiosa o più incerta. Non possiamo “settle” solo per timore che i nostri desideri e i nostri sogni siano faticosi da raggiungere, perché come il prof. Keating ricorda ai suoi studenti
O vergine cogli l’attimo che fugge.
Cogli la rosa quando è il momento,
che il tempo, lo sai, vola,
e lo stesso fiore che sboccia oggi,
domani appassirà (Orazio).
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=YA26tn21MGE&w=350]Agli inizi della mia carriera lavorativa, durante un colloquio per una Banca italiana, il responsabile dei Sistemi Informativi – che sarebbe potuto diventare il mio capo qualora l’istituto finanziario mi avesse assunto – mi chiese come mi fossi visto una decina di anni dopo. All’epoca, il 1999, non avevo neanche trent’anni, ero fresco di laurea e di militare e risposi che sarei stato felice di sapere di fare un lavoro che mi soddisfacesse e di avere una famiglia con la quale trascorrere un bel tempo insieme. Mi oppose – tale dirigente – che io non gli sembravo affatto una persona ambiziosa (come se poi le cose che sognavo non fossero già un’ambizione, coi tempi che corrono): ricordo che lo stroncai molto veementemente contestandogli che lui non mi avesse mica chiesto se fossi o meno ambizioso, ma soltanto come mi vedessi io dopo dieci anni. Aggiunsi – un tantino presuntuosamente – che sicuramente mi sarei tolto qualche soddisfazione se fossi riuscito a prendere il posto che all’epoca ricopriva Massimo D’Alema (Presidente del Consiglio). Ovviamente era una provocazione. Il posto non lo ottenni, ma risposi per le rime a quel dirigente mantenendo la mia schiena dritta e la fede a ciò che io ritenessi importante e non a quello che il “mercato” o le mode volessero: la carriera, il rampantismo, i soldi, le posizioni. Oltre dieci anni dopo sono stato a fare un colloquio a Londra, per un’importante azienda del settore dei new media, e quello che sarebbe potuto essere il mio boss Michael (e che ahimè purtroppo non lo è stato) mi ha rivolto una domanda completamente diversa, forse segno e cifra che il tempo è cambiato. Mi ha chiesto come vedessi il mio lavoro ideale: ci ho pensato su un pochino. Stavo facendo il colloquio per un’importante posizione manageriale nel campo delle nuove tecnologie e quell’episodio di dieci anni prima mi ritornò subito alla mente. Risposi dicendo che avrei voluto fare lo scrittore ma che non lo avrei fatto a tempo pieno se lo stress mi avrebbe rovinato la passione dello scrivere, come stavo rischiando di rovinare la passione per la fotografia e il conseguente rallentamento del mio business fotografico. Conclusi dicendo che qualunque cosa si facesse nella vita, qualunque lavoro uno avesse la sorte di fare, qualora si abbia la fortuna di amarlo e anche la fortuna di avere del tempo “buono” da trascorrere bene con i propri affetti, famiglia e amici, allora quello sarebbe il lavoro che varrebbe la pena fare, quel lavoro che consenta di coniugare dovere a piacere, lavoro e famiglia, lavoro e se stessi.
“It sounds good” mi disse Michael sorridendo, “I’m working on it“, aggiunsi io.
Dieci anni dopo il concetto di ambizione forse era finalmente cambiato:
Stay Hungry. Stay Foolish.