He did not screw me!

 In POLITICA

Ho intenzione di scrivere a John Micklethwait, editor-in-chief del magazine britannico “The Economist“, direttore responsabile diremmo noi in Italia, per protestare contro quel titolo che oggi campeggia sulla copertina del prestigioso settimanale economico. No, caro Mr. Micklethwait, c’è un errore in quel titolo: quell’uomo non ha “screwed” una nazione intera.

Ne ha fottuto la metà, non tutta! Perché – caro John – a chi come me era un giovane studente universitario era già tutto chiaro allora, nel lontano 1994, quando il Cavaliere apparve a reti unificate con il famoso messaggio della discesa in campo.

Anzi forse ne ha fottuto meno della metà e soltanto la litigiosità  di coloro che avrebbero dovuto intercettare quella maggioranza del Paese, che forse troppo generosamente abbiamo sempre chiamato centro-sinistra (ah quanti dibattiti sul famoso trattino, vero D’Alema?) ha impedito a questa nostra nazione di avere una seria politica di alternanza.

Ma a questa metà del Paese era fin troppo chiaro cosa rappresentava Berlusconi e la sua politica.

Penso tuttavia che anche quell’altra metà degli elettori debba essere rispettata e un titolo così duro e crudo non rende loro giustizia, soprattutto perché la maggior parte di loro – caro Direttore – ha creduto in un sogno, quello del self-made man.

Chi per ignoranza, chi per ingenuità e chi per consapevolezza di fottere gli altri, lo Stato, il sistema. Chi per desiderio di arricchirsi, chi per desiderio di vedere al governo “uno di noi“, uno di quelli che avrebbe giustificato ogni nostro peccato, ogni debolezza. Uno che è donnaiolo e magari cerca di aggirare le leggi per salvare se stesso, la famiglia, la sua roba salvo poi andarsi ad inchinare di fronte Santa Romana Chiesa, concedendo a papi, vescovi e cardinali qualche sconticino di ICI, qualche favore immobiliare. Uno uomo rimasto bambino che ruba la marmellata e poi dice che non è stato lui. Un uomo come tanti che fregano il prossimo, poi vanno a confessarsi, dicono tre “Pater, Ave, Gloria” e ricominciano da capo.

Ma alla maggioranza del Paese – caro Direttore – era perfettamente chiaro, cristallino, con chi avevamo a che fare. A coloro che sono andati oltre il cerone e al di là della calza sulla telecamera che lo riprendeva dai suoi studi televisivi, era perfettamente chiaro chi e cosa avessimo davanti e ci siamo battuti sempre perché anche quell’altra metà del Paese aprisse gli occhi e comprendesse che quell’uomo lì ci avrebbe portato sull’orlo del baratro.

Era perfettamente evidente come si fosse fatto i soldi, con quali regole aggirate avesse costruito il suo impero – prima immobiliare e poi televisivo – e con quali appoggi politici avesse poi fatto la fulminea carriera imprenditoriale. A noi, giovani progressisti che sognavamo un vero partito laburista, non post-PCI ma oltre-PCI e oltre-PSI, libero da definizioni del Novecento e pronto ad entrare e anticipare il XXI secolo, era perfettamente cristallino, come l’acqua del mare ai caraibi, chi fosse Silvio Berlusconi e soprattutto chi fossero tutti quelli che lui ha imbarcato nella sua avventura.

Quello che però è imperdonabile è che ci siano stati un sacco di personaggi che hanno circondato il monarca repubblicano in questi venti anni e che ora si riuniscono in un teatro romano per un processo sommario al loro amico “Silvio“. Berlusconi è stato sempre così, non è cambiato di una virgola: si sono accorti soltanto ora i Ferrara, i Feltri, i Belpietro che insultando la magistratura, parlando sempre di comunisti (dopo oltre 20 anni dalla fine del PCUS non se ne può proprio più!) il popolo sovrano si sarebbe prima o poi  scocciato? Dov’è il liberismo di destra, che tanto hanno professato, quando sono entrati in politica? Dove sono le liberalizzazioni delle professioni, la cancellazione degli ordini professionali, le famose tre “I“, “internet, impresa e inglese“, sbandierate dall’ex ministro e ex sindaco Moratti, durante il quinquennio a Viale Trastevere?

A noi giovani ventenni dell’epoca era evidente che quell’uomo lì e i suoi compagni di avventura non avrebbero portato nulla, nemmeno un briciolo di destra vera, seria ed europea, nella politica italiana, quella che “The Economist” vorrebbe tanto. Era scontato che un uomo che ha costruito il suo mito con il monopolio della TV commerciale non avrebbe prodotto un minimo di legge antitrust, che non sarebbe riuscito a comprendere nemmeno l’ABC del concetto di mercato e di concorrenza, che non avrebbe fatto nulla per lo sviluppo della banda larga perché questa avrebbe rappresentato la più grande minaccia alle sue televisioni e alla sua raccolta pubblicitaria. Ma soprattutto banda larga, internet, avrebbe significato libertà di informazione concetto completamente estraneo al Cavaliere.

Vede, caro Mr. Micklethwait, noi già all’epoca sapevamo che per Berlusconi l’inglese era quello di “the cup is on the table” perché se vuoi veramente insegnare l’inglese alle scuole devi investire, spendere soldi e i suoi esecutivi hanno soltanto tagliato alla cultura e alla scuola pubblica. Tanto chi aveva i soldi (e chi ancora ce li ha) può tranquillamente iscrivere i suoi figli nelle migliori scuole anglo-americane in Italia e poi magari pagare le rette delle migliori università inglesi, francesi, svizzere e americane. Ma uno Stato che si rispetti deve cominciare a investire sulla scuola pubblica perché anche i figli di un impiegato e di un operaio, di una badante o di una cameriera, di un autista o di un portantino abbiano la possibilità di conoscere, imparare bene una lingua straniera perché anche loro hanno diretto ad un sogno. E i figli sono il nostro futuro.

Ed anche se ormai è tardi e la sua copertina è già stampata in tutta Europa il suo titolo sarebbe più onesto se parlasse di metà paese, quello che si è lasciato imbambolare da un vecchio e ormai stanco impresario televisivo.

Certo non è che noi dell’altra metà ci si possa consolare così facilmente.

Cosa resterà dopo venti anni di giostra attorno a Berlusconi, al suo mondo patinato? Cosa accadrà a tutti quelli che hanno adesso venticinque-trentanni e che sono cresciuti pensando che fosse normale un Paese in cui il Capo del Governo dà del cancro alla Magistratura, si sottrae ai propri processi facendosi le leggi da solo, continua a raccogliere colossali figure di “m…” ai vertici internazionali, creando imbarazzo enorme nelle cancellerie mondiali?

Quante generazioni dovranno passare prima di poter avere un paese finalmente occidentale? E ci riusciremo?

Ecco perché chi si trovava dall’altra parte del fosso e ha resistito tutta la vita affinché non venisse distrutto quanto duramente costruito dai nostri padri e dai nostri nonni dopo la guerra adesso prova un senso di vuoto.

Non perché in questi venti anni abbiamo avuto soltanto un referendum pro/contro Silvio Berlusconi bensì perché dopo venti anni di campagna elettorale permanente, fatta soltanto di slogan televisivi, di annunci e di promesse, di vittimismo (quante volte abbiamo sentito la frase “non lo fate governare, povero Silvio!“) è rimasto ormai un cumulo di macerie, sociali e istituzionali.

E sebbene sia facile adesso prendere un discepolo di Ferrara, Feltri, Belpietro e Salluti e dirgli “lo vedi che avevamo ragione noi!” questa ragione non consola affatto perché adesso gli anni sono quaranta e abbiamo una responsabilità molto più grande di prima e la più grande di tutti: quella dei nostri figli.

Cosa resterà per la mia piccola principessa in questo paese? Quale scuola, quale università potrà frequentare? Quali opportunità potrà avere lei fra 15 anni quando raggiungerà la maggior età?

Forse però il senso del vuoto è dovuto all’incredulità di fronte al fatto che ci siano voluti – ancora una volta – venti anni per aprire gli occhi. Perché dopo che per venti anni si sia resistito, resistito, resistito (come disse Borrelli nel 2002) “come su una irrinunciabile linea del Piave” anche il nostro Fiume sacro appare adesso un tantino un torrente rinsecchito.

 

p.s. ieri sera, a “Otto e Mezzo”, la trasmissione de “la 7” condotta da Lilli Gruber, il Presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, con la sua solita aria saccente, ha affermato che The Economist è un giornale letto più in Italia che in Regno Unito, aggiungendo che la copertina era figlia della solita ossessione del direttore. Peccato che si tratta caso mai di un’ossessione continuativa, in quanto da 5 anni il direttore del magazine britannico è cambiato ed era stato il precedente, Bill Emmot, a regalare le straordinarie copertine sull’inadeguatezza del Cavaliere al ruolo di capo del Governo e quello attuale è responsabile soltanto di un’altra (con un forte “mamma mia”!). Forse Formigoni dovrebbe documentarsi meglio e scendere un attimo dall’altare/piedistallo sul quale è salito.

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