California Dreaming
Non era passato nemmeno un minuto da quando il carrello del Boing 777 dell’Alitalia avesse poggiato le ruote sul suolo del Golden State che un anziano e assai pittoresco italo-americano ci diede il benvenuto a Los Angeles con un tocco di fisarmonica e un “vitti ‘na crozza“! L’equipaggio, tra il panico e il divertito, invitò il simpatico vecchietto a rimanere “seduto con le cinture allacciate” ma il signore non ne volle sentire e terminò la sua esibizione, augurando a tutti un “Benvenuto a Los Angeles!“. Cominciò così la nostra avventura nel lontano West, con un tocco di colore tutto meridionale!
L’improvvisato fisarmonicista mi confessò – allo sbarco al Terminal – che sebbene fosse di origini abruzzesi amava tantissimo quella famosa malinconica canzone siciliana. Sorridemmo e ci avviammo verso il controllo passaporti dell’immigrazione che tutto sommato passammo abbastanza velocemente. Non mancò ovviamente, da parte del funzionario dell’Immigration Service, un serio ma sorridente sino-americano, il suo “Benvenuto negli Stati Uniti“, con l’augurio di godersi il soggiorno negli States.
Prima sorpresa: i nostri bagagli, passeggino della bimba compreso, già belli e pronti!
Passammo il controllo doganale e finalmente Los Angeles fu tutta per noi. Nella nostra pianificazione avevo previsto che avrei noleggiato l’auto alle tre del pomeriggio e non prima delle cinque sarei andato in hotel, prenotato vicino l’aeroporto proprio per non perderci subito dentro la megalopoli californiana. Alle tre del pomeriggio, le dieci di sera per il nostro bioritmo, eravamo già in fila al check-in dell’albergo e pronti per la prima escursione sulla spiaggia e al Pier di Santa Monica.
Nel parcheggio antistante il Pier la macchinetta per pagare la sosta (di due dollari) accettava soltanto monete e la banconota da un dollaro: così chiesi ad un altro ragazzo se avesse da cambiarmi 20 dollari. Purtroppo questi non aveva a disposizione il cambio (cosa che ritengo perfettamente normale in America, considerando che con la carta di credito si pagano il 99,99% dei beni e servizi che si acquistano nel paese: negli ultimi cinque giorni non prelevai nemmeno il contante) e per cambiarli andai a comprare Hot Dog, patatine, acqua e bibita in un chioschetto vicino!
E mentre mi trovavo in fila che successe? Che arrivò quel ragazzo con un biglietto in mano, per una sosta di due ore, e non volle nemmeno quei due bucks che ormai ero in grado di dargli! Cominciò così il nostro viaggio lungo le strade della California, con un benvenuto pittoresco, una dimostrazione pazzesca di efficienza dei servizi (aeroportuali, noleggio auto e alberghiero) e un tocco di grazioso omaggio di uno sconosciuto.
Undici giorni dopo, atterrati all’aeroporto di Fiumicino, venimmo accolti da due funzionari di polizia abbastanza scocciati al controllo passaporti, un’eterna attesa per i bagagli al nastro indicato sui display, una disavventura tutta italiana per recuperare il passeggino di Elisa e l’incertezza della partenza della navetta per Roma per via di un ritardo di altri due passeggeri attesi (due poveri signori inglesi che avevano smarrito il loro bagaglio in Germania), senza che nessuno ci dicesse nulla, ci comunicasse qualche novità.
A volte penso che i turisti che arrivano ogni anno in Italia devono amare veramente tantissimo il nostro Paese, le nostre città d’arte e il nostro patrimonio artistico-culturale. Perché solo così mi spiego la loro continua presenza attorno al Colosseo, in fila ai Musei Vaticani e agli Uffizi, lungo i ponti e i canali di Venezia, al lungomare di Mergellina, sui tornanti dell’Etna, sulle nostre spiagge e in cima alle nostre montagne. Solo così mi spiego perché si continuino a vedere così tanti nasini all’insù sotto la torre di Pisa e il Duomo di Milano, così tante bocche aperte tra le stradine di Spoleto e lungo le colline del Chianti in Toscana (una gentilissima signora del locale ufficio turistico di Mariposa, ai piedi del parco di Yosemite, mi confessò il suo sogno segreto di ritirarsi in pensione in Toscana!), così tanti occhi commossi di fronte agli straordinari e romantici paesaggi e tramonti delle coste italiane, di Capri, di Taormina, di Positano, della Costa Smeralda, del Salento e delle nostre stupende montagne. Perché se non avessimo tutto il ben di Dio che abbiamo e pensassimo di fare turismo con quella concezione dei servizi e del customer care che ci contraddistingue (in negativo) col cavolo che avremmo il pienone negli alberghi e nei musei!
In undici giorni trascorsi in California, in uno degli stati più “giovani” della pur giovane unione degli Stati Uniti d’America (la California è il 31° stato ammesso nell’Unione, nel 1850, giusto 11 anni prima dell’Unità d’Italia, in una nazione che vede la propria storia moderna cominciare nel Cinquecento/Seicento e soltanto nel 1776 con la Dichiarazione di Indipendenza dalla corona inglese si formarono gli Stati Uniti), ho potuto comprendere a pieno perché gli americani riescano a valorizzare anche un vecchio treno utilizzato nella corsa all’oro della fine del XIX secolo, come fosse un manufatto di Leonardo da Vinci! Non soltanto per quello che hanno come patrimonio: un po’ pochino, ovviamente, se lo confrontiamo al Vecchio Continente, alla Cina, al Giappone o alla Mesopotamia. Bensì perché riescono a portare ovunque e comunque una serie di servizi base (alloggi, ristoro, bagni), per i viaggiatori, siano essi nationals che internationals, che si sentono quindi in qualche modo “protetti” e che non hanno quindi ragione di temere il viaggio, lo spostamento, sia una moltitudine di servizi a valore aggiunto che inevitabilmente comportano una aumento delle revenues globali derivanti dalla visita di quel determinato soggetto culturale.
E grazie a questa filosofia orientata ai servizi che in ciascuno dei motel dove abbiamo dormito abbiamo sempre avuto il WiFi gratuito (ripeto, gratuito. A Firenze, in un albergo del centro, qualche tempo fa pagai due euro per mezz’ora di connessione), alle stazioni di servizio si fa il pieno con la carta di credito e nulla si inceppa, in tutte le stazioni di servizio vi è sempre un Food Mart per cibo e caffè (e pannolini!) e nel caso hai qualche problemino di salute anche per comprare qualche medicina da banco (altro che para-farmacie!).
Passeggiare per San Francisco, forse la città dove mi trasferirei ad occhi chiusi, è stata un’esperienza di civiltà enorme: parcheggi ordinati, traffico normale, vita non frenetica; i marciapiedi senza barriere architettoniche e la pulizia delle strade: per chi come me è abituato a vivere tra la metropoli italiana e la grande città metropolitana del Sud, la rabbia diventa inevitabile ed enorme. Martedì scorso a Roma, primo giorno di lavoro post-US, ho fatto (come sempre!) zig-zag per salire su un marciapiede e pensavo a quelle povere famiglie e tate con i passeggini che devono camminare in mezzo alla strada, tanto inaccessibili sono ormai i marciapiedi!
Pensavo alla sporcizia delle nostre spiagge e non potevo fare a meno di ripensare a quelle stupende spiagge cittadine di San Francisco dove mia figlia ha giocato con bimbi di qualunque estrazione culturale, sociale ed etnica, senza bottiglie, cicche, cartacce. Riflettevo – fotografando Alamo Square e le sue case vittoriane – a quanto i nostri parchi, più o meno pubblici, siano tenuti male. Rivedevo la mia piccola principessa giocare in uno stupendo playground a Monterey Bay, finanziato interamente con la tassa di soggiorno e reso disponibile a tutta la comunità senza differenza di censo, ceto o qualunque altra cosa!
E guardando tutto questo non potevo fare a meno di notare come i californiani non abbiano fatto grandi cose, ma abbiano semplicemente fatto funzionare le cose semplici, una per una, in una sorta di fabbrica dei servizi. E fare le cose semplici non è complicato, necessita soltanto della buona volontà di tutti. Quella che forse abbonda in California e latita dalle nostre parti, dove si continua a pensare al Ponte sullo Stretto di Messina e nel frattempo le strade tutte intorno sono quelle di quaranta anni fa!
Ecco cosa mi ha insegnato la California: fare bene le cose semplici, utilizzare il buon senso anche a costo di sembrare ridicoli (si pensi ai cartelli che negli USA sono un po’ dappertutto nei servizi igienici che ricordano agli impiegati di qualunque esercizio, pubblico o privato che sia, che devono lavarsi le mani dopo aver usato i bagni, “cosa che sarebbe anche apprezzata se venisse fatta dai clienti” – trovai scritto più o meno letteralmente così in alcuni restrooms lungo una freeway), implementare la famosa regola aurea evangelica “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te!” in ogni aspetto della propria vita di relazione sociale.
Ciò non significa che la California o gli Stati Uniti siano la perfezione o che costituiscano la società perfetta. L’ideale, l’utopia, non esiste: vi sono sacche di delinquenza anche ai margini di San Francisco o di Los Angeles, come in ogni città del mondo occidentale. E sono a mio avviso un obbrobrio le condotte di elettricità in piena città che viaggiano ancora con cavi aerei e non interrati, deturpando i downtown e le periferie delle metropoli americane. E sicuramente i cittadini di quello stato e di quella nazione stanno ancora patendo moltissimo gli effetti della recessione che lì, più di ogni altra parte del mondo, ha colpito fin anche i ceti più abbienti e con più capacità di spesa. Ed è secondo me uno scandalo che negli Stati Uniti d’America non vi sia una copertura sanitaria pubblica almeno per i meno abbienti, un servizio sanitario pubblico come vi è dai loro vicini di continenti, in Canada, spesso ai vertici delle classifiche sulla vivibilità delle città (in primis Vancouver, BC).
Ma a prescindere dalle inevitabili pagliuzze negli occhi dei californiani e degli americani è impossibile non vedere come le nostre travi ci stiano facendo perdere di vista il comune senso del vivere e come ci stiano facendo perdere una barca di soldi per l’inefficienza delle nostre strutture turistiche e dei servizi erogati ai clienti, al pubblico. Mi auguro che prima o poi ci si renda conto che di rendita non si potrà campare ancora per molto: arriverà un giorno in cui nemmeno le bellezze della Cappella Sistina o gli affreschi di Giotto saranno sufficienti, perché le nostre città, le nostre coste, le nostre colline e le nostre montagne dobbiamo imparare a preservarle per noi stessi in primis e non perché sappiamo essere visitate dagli stranieri. Dobbiamo far sì che le nostre strade, i nostri parchi e le nostre spiagge siano sicuri per i nostri figli perché siamo noi stessi i primi clienti di quell’immenso patrimonio artistico, ambientale e culturale che da sempre chiamiamo Belpaese.