Produttività e Unità

 In POLITICA

Papà, lavoro no! Casa!“, mi ripete spesso la mia bimba prima che esca e vada in ufficio. I suoi occhioni li vedo riempirsi di tristezza e forse di perplessità, non riuscendo a comprendere a pieno i motivi per cui il suo papà lo debba rivedere dodici ore dopo.

È da qualche giorno che in Italia si dibatte sull’opportunità di festeggiare il 17 marzo, 150° anniversario della proclamazione del Regno d’Italia e quindi dell’Unità politica di una Nazione che fino ad allora era solo unita geograficamente.

Certo che la società occidentale e capitalista è molto particolare: ha raggiunto una ricchezza e un benessere incredibile, impensabile dal secondo dopoguerra in poi, ma fa ancora molta fatica a far tesoro dei propri errori. Non riusciamo infatti a scrollarci di dosso il mito della “produttività” e del “PIL“, come fosse quest’ultimo l’unico metro di valore economico (e sociale) e la prima la vera unità di misura di un sistema imprenditoriale che – specialmente nel nostro Paese – fa acqua da molte parti.

Non lontano da qui, nella Germania di una conservatrice come Angela Merkel, si sta discutendo di come conciliare gli orari di lavoro ai ritmi della famiglia, forse sfruttando a pieno quell’incredibile volano di innovazione che è costituito dalla rete e da un uso sapiente delle nuove tecnologie.

Nel nostro paese, invece, il Presidente degli industriali si oppone a festeggiare un’importante ricorrenza unitaria nazionale con la solita e truffaldina scusa dei ponti. La cosa che più mi colpisce è che anche i sindacati, che dovrebbero difendere i più deboli, siano ormai vittime di questo modo di ragionare. Il segretario generale della CGIL, la Camusso, anziché obiettare che un po’ di riposo in più non ha mai fatto male a nessuno (consideriamo infatti che feste e ponti sono le sole ricorrenze che i comuni lavoratori possono permettersi per trascorrere del tempo con le loro famiglie, non avendo a disposizione aerei privati, barche e via dicendo per fare la bella vita), scende sullo stesso piano di mera contabilità vacanziera, come la  presidente Marcegaglia, ponendo in evidenza come il 25 aprile e il 1° maggio non si porteranno dietro nessun ponte.

Ho terminato da qualche giorno la lettura di “Avanti Tutta“, secondo libro sul tema del downshifting di Simone Perotti, un ex manager che ha lasciato il lavoro per scalare marcia e vivere facendo quel che più gli piace. Il tema del downshifting mi sta molto appassionando perché non si tratta di una fuga da un mondo che spesso non ci scegliamo (intendo le compagnie e i colleghi, non ovviamente il lavoro che spesso è frutto di un contratto da noi firmato!), bensì si tratta di ridimensionare e ricostruire le cose che sono più importanti nella vita. Il lavoro e il profitto sono sicuramente due aspetti importanti della nostra società e della nostra vita ma non possiamo ridurre tutto a questo. Anche il Pontefice, recentemente, ha ricordato che il lavoro non può essere tutto e detto dal Capo della Chiesa Cattolica, che spesso fa leva sui sensi di colpa e dal timore del peccato, è un grandissimo passo avanti.

Difatti è spesso per un innato (inculcato fin dall’infanzia) senso di colpa che pensiamo che trascorrere più tempo in vacanza, ad oziare (otium pater vitiorum, dicevano i latini!), sia sbagliato e che ci distolga dalla “vita reale“, che sarebbe poi quella fatta dalla solita e noiosa routine quotidiana. Non ci rendiamo conto che l’otium dei nostri padri non era il “perditempo“, era invece la riscoperta del tempo per il , per l’io, che spesso viene mortificato dalle incombenze della vita quotidiana.

Quando guardo gli occhi perplessi e tristi di Elisa, che mi saluta alla porta augurandomi di trascorrere una buona giornata, penso che l’85-90% delle attività lavorative che svolgo potrei farle – con più profitto – seduto sul mio divano, in ciabatte e tuta, con la mia bimba che gioca in camera sua e che viene a chiedermi qualunque cosa le passi per la mente. Sarei in una situazione mentale sicuramente più serena, potrei fare queste attività in qualunque posto mi voglia trovare, basta soltanto avere un computer e una connessione a banda larga.

Si potrebbe andare in ufficio soltanto quando serve e si risparmierebbero milioni e milioni di euro, tossine e stress.

Ciò naturalmente non può e non deve valere erga omnes, bensì soltanto per quelli che scelgono un determinato tipo di vita perché non tutti stanno bene con se stessi a casa propria e ci sono molti che preferiscono invece andare in ufficio e trascorrere tempo fra i colleghi. Siamo ormai in un ciclo economico dove, se escludiamo le “fabbriche” nelle quali la presenza operaia è per forza di cose necessaria, la stragrande maggioranza dell’economia di servizi e di attività è remotizzabile.

Viviamo infatti in un’era tecnologia che chiamerei post-telematica, un’era dove neanche un PC  è necessario, basta uno smartphone o un tablet per collegarsi alla propria “nuvola” telematica. Servizi come dropbox, che forniscono fino a 8 GB di spazio gratuitamente e che sono raggiungibili anche attraverso smartphone o tablet, sistemi operativi interamente on line come iCloud, fino alle applicazioni Google, Zoho, Evernote e tutta la miriade di applicazioni più o meno gratutite che ormai si trovano in rete, fanno sì che il mondo dell’informatica si stia spostando tutto sulla rete, rendendo di fatto possibile qualunque livello di remotizzazione. Il successo di iPhone e iPad per Apple e di smartphone e tablet basati su Android costituiscono la testimonianza più evidente di un mondo – quello della rete – che sta diventando sempre più un mondo “touch“, dove gli strumenti di lavoro non sono più complicati, bensì intuitivi come i giochini per i bimbi di tre anni!

Il problema si è quindi spostato verso la questione della sicurezza delle informazioni e della rete, piuttosto che il controllo fisico di dove si trovi un addetto. Il problema della sicurezza fisica di quest’ultimo, sebbene sia un tema spesso sbandierato da chi non vuole assolutamente sperimentare una virtualizzazione della postazione lavorativa, mi sembra superabile da una semplice contrattazione.

Le resistenze culturali tuttavia sono enormi: da un lato citavo quelle persone che “scelgono” di trascorrere tempo in azienda, che amano alzarsi presto, mettere l’abito, prendere la macchina (o la moto) e trascorrere un’oretta sul mezzo (o su un bus), lavorare e stare a contatto per oltre 9 ore – pausa pranzo inclusa – con persone che non hai scelto e che ti devono piacere per forza, dato che ci devi passare tutto questo tempo insieme …

Queste persone proprio non riescono a comprendere il perché si facciano certe proposte! Sono talmente avvezze al sistema e inserite nell’ingranaggio che non riescono proprio a capire come possano esserci altri individui che abbiano altre esigenze e pensino in altro modo sul tema! Non riescono proprio a capacitarsi del fatto che ci sia qualcuno che voglia più tempo per sé e per pensare.

Ma dall’altro ci sono resistenze che neanche credevo vi fossero: tre anni fa circa, prima che nascesse Elisa e quindi ben prima che scegliessi il Congedo Parentale per dedicarmi alla mia piccola per sette mesi, sottoposi, ai colleghi che all’epoca erano sindacalisti,  una mia riflessione riguardo il telelavoro e ponevo ad esempio un grande giornalista, Vittorio Zucconi, che non solo fa l’inviato speciale permanente per la Repubblica da Washington, DC ma è anche il direttore di Radio Capital e del sito repubblica.it.

È quindi la persona che ha la responsabilità di una redazione giornalistica pur rimanendo a miglia e miglia di distanza e soprattutto a sei ore di fuso orario dal nostro Paese e che quindi avrebbe anche il compito di “controllare” i suoi collaboratori.

Come ho detto in questo post non chiedevo una soluzione d’imperio per tutti bensì di cercare la strada per offrire ai dipendenti questa possibilità, affinché si potesse scegliere di telelavorare, così come si potesse scegliere di continuare ad andare in azienda.

Ebbene la reazione di un collega, con un passato di sindacalista molto combattivo, fu molto deludente: mi rimbrottò dicendomi che se un lavoratore pensava ad una simile soluzione era meglio si andasse a ritirare in un monastero, perché il rischio del telelavoro consisteva nell’“alienazione del lavoratore”.

Rimasi – ricordo – basito: “ma se uno lo sceglie” – pensai –  “mica poi dirà che è alienato!  L’ha scelto!”.  Lo stesso ex sindacalista mi diceva che era rischioso un discorso simile perché le aziende potevano approfittarsi e rompere l’unità dei lavoratori.

Quale unità poi, in quell’azienda, non l’ho mai capito!

Un discorso simile lo feci ad un collega delle risorse umane. Pensavo infatti che se i sindacati facevano muro contro una proposta del genere, la controparte, l’azienda, i padroni, secondo la classica rappresentazione marxista-leninista, sarebbe stata d’accordo.

E invece la doccia fredda: ragioni di sicurezza informatica, controllo, sicurezza sul lavoro e altre mille balle simili.

Mi resi conto che in realtà padroni e lavoratori (o meglio rappresentanti dei lavoratori) ormai erano parti della stessa commedia (o tragedia), quella di un sistema economico che si regge su bolle finanziarie, immobiliari, tecnologiche, energetiche e che rifiuta un vero sviluppo sostenibile, mistificando la crescita economica con il benessere quasi come se i soldi facessero veramente la felicità. Neanche i rappresentanti dei più deboli si rendono infatti conto che la domanda di servizi pubblici non è altro che la richiesta di uno stile di vita più sobrio e più tranquillo, senza una corsa sfrenata a soddisfare tutti i bisogni che il giorno dopo saranno già dimenticati e soppiantati da altri bisogni da soddisfare.

Anche negli Stati Uniti, massima espressione planetaria di un sistema economico consumistico che sta ancora pagando cara  sulla propria pelle la crisi economico-finanziaria del 2008, cominciano a farsi largo scuole di pensiero che teorizzano un altro possibile sistema economico, meno consumistico e più salutare.

La mia piccola il prossimo settembre comincerà la sua avventura nel sistema scolastico: spero che almeno i suoi figli un giorno, potranno dirle “mamma, vai a lavoro oggi, non rimanere a casa!“.

Magari un giorno vivremo il paradosso opposto, che trascorriamo troppo tempo con i nostri figli che sono loro stessi che ci sbattono fuori casa.

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