Il problema siamo anche noi

 In LIFE
Sono ormai quasi mille i chilometri che ho percorso sulla mia bici pieghevole Dahon da quando ho preso la decisione di sbarazzarmi della moto (che adoravo, lo sapete!) e cominciare a vivere in città secondo un diverso modello di mobilità e sostenibilità. Vi avevo raccontato di come in fin dei conti si trattasse di soli dieci minuti in più rispetto a quanto ne impiegassi con i 110 cavalli trattati come ronzini. Adesso a quattro mesi circa da quella decisione possiamo cominciare a fare un bilancio e a comprendere se sia da confermare la decisione di intraprendere questo modello di mobilità oppure tornare all’assistenza di un motore.

Innanzi tutto dovete sapere che una sera – complice un’arrabbiatura per aver perso un allenamento di nuoto a causa di una di quelle inutili riunioni che nel mondo contemporaneo fa tanto figo convocare alle 18 – sono riuscito a impiegare soltanto 25 minuti per tornare a casa. Morale: mai fare incazzare un nuotatore master che si spara la miglior prestazione personale in bicicletta per compensare! Scherzi a parte, parliamo di 25 minuti. In estate, con la città vuota e con la moto, avrei potuto impiegare al massimo 20 minuti. Attualmente in media passo in bici 35-40 minuti al mattino, mentre me ne occorrono 30-35 per ritornare a casa la sera: insomma al massimo un quarto d’ora in più che mi viene ripagato in termini di migliori condizioni fisiche e cardiovascolari.

Ho osservato invece con molta attenzione il flusso e le code delle automobili accanto a me. La stragrande maggioranza è occupata dal solo guidatore: una macchina, una persona. Questa cosa mi ha riportato con la mente ai tempi delle scuole medie: nel paesino alle pendici dell’Etna e alle porte di Catania, Mascalucia, dove abitiamo ancora quando siamo giù, c’erano i doppi turni per le lezioni della scuola media (banalmente mancavano le aule. Ogni tanto dovremmo riflettere bene quando diciamo che “prima” si stava meglio!) e i miei genitori decisero di iscrivermi ad Acireale, dove all’epoca lavorava mio padre. Ho fatto il pendolare con Acireale – sedici chilometri – per otto anni, insieme ai miei cugini-fratelli prima e dopo anche con mia sorella, che mi seguì nell’avventura acese, cambiando soltanto la scuola media (per fortuna sua!). Otto anni nei quali quasi sempre noi si viaggiava insieme a un collega di mio padre, Nino, che abitava a due passi da casa nostra. Poi in seguito ci fu persino un terzo collega, Paolo. Non erano ancora arrivati gli americani e i loro neologismi ma il car pooling io l’ho sperimentato sin dal 1982!

Ogni giorno, specialmente la mattina quando le strade si riempiono di un tappeto di auto, ripenso al fatto che forse il benessere non sempre ha portato i benefici che la società pensava, specialmente riguardo il senso civico che dovrebbe essere la base della convivenza sociale fra le persone.

Naturalmente ciò assume toni grotteschi quando osservo raggiungere il proprio posto di lavoro in automobile, moto o scooter, persone che abitano a meno di 4-5 chilometri. Personalmente ne percorro quasi nove e ammetto che forse sarebbero anche tanti per costoro e sono certamente aiutato dal fatto che praticando seriamente nuoto la mia preparazione fisica di base c’è. Ma con una bicicletta come la mia, con una ruota da 20 pollici tipo quella di mia figlia, pedalare a basso ritmo per quattro chilometri significa semplicemente impiegare 15-20 minuti massimo senza nemmeno una goccia di sudore. Siamo proprio sicuri che serva un mezzo a motore per spostarsi in una città come Roma? Dovremmo forse ricordarci anche che il “passo d’uomo” è circa pari a 4 km/h: insomma chi vive a due chilometri di distanza dal posto di lavoro non dovrebbe nemmeno pensarci due volte, scegliendo di … camminare!

Certo, mi rendo conto che sto diventando quasi un bike-taliban, un talebano delle biciclette, ma mi sono reso conto – con l’esperienza sul campo – che è soltanto questione di volontà voler cambiare il modello di sostenibilità ambientale delle nostre città. E che parte del problema siamo anche tutti noi, non sempre e non soltanto una classe dirigente truffaldina e inadeguata. Se abbiamo voluto pagare alle industrie dell’automobile, Fiat in primis, il prezzo della nostra tranquillità lavorativa senza pretendere in cambio servizi pubblici degni di una città occidentale moderna, forse le colpe non vanno soltanto cercate fra Montecitorio e Palazzo Madama, ma anche in ciascuna delle nostre case dove ci siamo convinti che possedere quanta più roba possibile fosse segno di benessere e non spesso indice di un’ossessione compulsiva per la roba.

Naturalmente ammetto che la mia attuale visione della vita cittadina è più vicina a città come Londra, Berlino, Amsterdam o Parigi piuttosto che la Capitale d’Italia. Possedendo inoltre una bici pieghevole, talvolta utilizzo la metropolitana, sempre che quella romana noi la si possa chiamare metropolitana senza che il Tube londinese si offenda e mi lasci a piedi fra tre mesi quando tornerò nella capitale britannica. Tuttavia dopo aver regalato all’ATAC, l’azienda dei trasporti capitolina, gli abbonamenti di ottobre e di novembre (l’ho adoperato talmente poco che mi conveniva comprare all’occorrenza un biglietto singolo!), sono due mesi che non ho rinnovato il mensile preferendo pedalare. La scarsa frequenza di mezzi sulla linea B1 (una di quelle nuove!) che serve la mia zona spesso mi fa preferire arrivare fino a casa tutta di un fiato. Inoltre al capolinea del Tufello, una porzione del popoloso quartiere di Montesacro, assisto all’incredibile ressa per salire sull’ascensore, sconfortante abitudine dei miei concittadini che sono talmente pigri da non farsi due passi a piedi e salire sulle scale mobili! L’altro giorno il ridicolo si è toccato con un signore sulla sedia a rotelle costretto ad aspettare in fila per poter riuscire a salire sull’ascensore dedicato – anche se non in via esclusiva – proprio a loro disabili, alle carrozzine dei bambini e a noi ciclisti. Per queste ragioni – se non ho proprio bisogno di evitare un affaticamento eccessivo prima delle sedute in vasca – preferisco pedalare: meglio il traffico che lo stress dei trasporti pubblici romani.

Infine una considerazione: muoversi in bicicletta ha modificato radicalmente il mio stile di vita complessivo. Se da un lato infatti posso mangiare anche di più senza troppe paure di mettere ciccia (e chi ha seguito dall’inizio questo blog sa come una carriera da tennista sia stata stroncata da un piatto di caponatina della nonna!) dall’altro ho scoperto il valore del tempo. Chiunque viva in una grande metropoli, e peggio ancora in una metropoli non organizzata come tale qual è la Città Eterna, sa che lo stress è la malattia del secolo, la condanna che noi abitanti di questi abbiamo immensi centri di produzione di lavoro e burocrazia paghiamo al dio denaro, al mostro dei consumi che fa andare avanti la produzione industriale e quindi le economie contemporanee. Da quando mi sposto in bici in realtà ho (ri)scoperto quanto sia bella la lentezza, comprendendo che dieci minuti in più o in meno non sono certamente un dramma, svegliandomi o coricandomi dieci minuti prima. Allo stesso modo lo stress – che sicuramente per noi che abbiamo familiarità con problemi ipertensivi è un nemico giurato – si riesce ad allentare di molto grazie al fatto che si scaricano tante tensioni sulle due ruote. Osservi il mondo con altri occhi, comprendi come basti veramente poco per rallentare una frenesia di una vita che altrimenti lascia morti e feriti sull’altare di un’economia che ingurgita ogni nostra energia. Ed è paradossale che l’essere umano, che ha “inventato” la tecnologia per poter vivere meglio, alla fine si debba rivolgere a un mezzo antico per poter sopravvivere proprio allo stress che quella stessa tecnologia gli ha portato. Monti in sella e per trenta minuti ti riappropri del tuo tempo e della tua lentezza, comprendendo che non è soltanto nel corpo sano che la mente trova la propria salute, come dicevano gli antichi romani: serve vivere secondo il tempo proprio dell’essere umano, non quello accelerato delle macchine.

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