L’Italia al tempo di Frank Underwood

 In MEDIA
Non so quanti dei lettori di questo blog seguano la serie televisiva americana House of Cards. A me piace molto: televisivamente parlando è un capolavoro, come spesso capita per i telefilm di maggior successo che negli Stati Uniti godono di molti mezzi e ottimi autori. Se non l’avete ancora vista procuratevela (in maniera legale, s’intende!). Specialmente il secondo episodio della terza serie, l’ultima sinora, andato in onda qualche mese fa in Italia. Francis J. “Frank” Underwood – 46° Presidente degli Stati Uniti (nella fiction è come se Obama avesse perso le elezioni del 2012, visto che a vincerle sarebbe stato Garrett Walker) – annuncia un discorso alla nazione in prima serata: non nella sala delle conferenze stampa ma nel corridoio, quello degli annunci importanti come quando il vero presidente, Barack Obama, diede la notizia al mondo intero che Osama Bin Laden era stato catturato e ucciso dai Seals.

Frank – impersonato da quel mostro sacro che è Kevin Spacey – guarda dritto la telecamera, sopra la quale il gobbo elettronico fa scorrere le parole del discorso: ha uno sguardo intensissimo, meraviglioso. Per capire però quel momento della politica “fiction” americana bisogna fare un salto indietro nel tempo, all’inizio della vicenda. Il democratico Walker è stato eletto presidente: grazie alla macchina elettorale sapientemente guidata dal deputato Underwood, l’Asinello americano si appresta a governare e Frank dovrebbe diventare il Segretario di Stato, trampolino di lancio per una futura corsa verso la Casa Bianca.

Poco prima del giuramento del nuovo presidente, quando tutto lascia presagire che il lavoro suo e della bellissima moglie Claire ha dato i suoi frutti, Linda Vasquez, Capo dello Staff di Walker, comunica ad Underwood la decisione del Presidente eletto: non sarà lui a guidare Foggy Bottom, il potente Dipartimento di Stato statunitense.

Così Frank cova la sua vendetta, puntando a eliminare politicamente chiunque abbia complottato contro la sua nomina, a partire proprio dal Presidente. Ma arrivare alla Casa Bianca non è facile: Underwood elimina una a una le pedine che potrebbero ostacolarlo, manovra deputati e senatori, commette persino due omicidi facendoli apparire (con successo) due suicidi. Convince il Vice Presidente (molto poco considerato da Walker nell’Amministrazione e confinato quasi a taglia-nastri) a candidarsi a Governatore del suo stato al solo scopo di ottenere lui la nomina. Così avviene e divenuto il numero due in linea di successione comincia il logorio interno della leadership del Presidente, culminata con le dimissioni di quest’ultimo e il suo giuramento: è lui il nuovo Presidente.

La terza serie comincia proprio così, con Underwood ormai alla Casa Bianca ma con sondaggi e indici di fiducia in picchiata: l’opinione pubblica è scossa dai mezzi sbrigativi che ha adoperato per arrivare allo Studio Ovale, dalle ombre sulla sua carriera, dai mezzi poco ortodossi per portare avanti le trattative, specialmente con i sindacati (ridicolizza quelli degli insegnanti).

Underwood deve trovare una soluzione: la leadership del partito gli chiede di non candidarsi alle elezioni perché non riuscirebbe mai a vincere contro i candidati repubblicani che sfruttano l’ondata di impopolarità. Così tira fuori dal cilindro un coniglio incredibile: promette – mentendo – ai suoi compagni di partito che non si candiderà nel 2016 in cambio dell’appoggio incondizionato del Congresso alla sua proposta di legge chiamata “America Works”, “L’America lavora”. Poi a sera, in prime time, si piazza davanti al leggio con il sigillo presidenziale e pronuncia un discorso straordinariamente intenso: «Vi devo dire la verità: voi non avete diritto a nulla!» – afferma guardando in faccia lo spettatore sconcertato. Annuncia di voler varare un piano straordinario per rimettere al lavoro le persone che ancora non lo hanno trovato dopo la crisi economica a spese di tutti i programmi federali di welfare, dal Social Security (le pensioni) al Medicare e Medicaid, i due programmi federali americani che servono rispettivamente per gli anziani e i poco abbienti. Annuncia cioè una rivoluzione copernicana dei capisaldi della sinistra americana invertendone le priorità: rimettere al lavoro la gente, non garantire pensioni e assistenza sanitaria. I democratici americani vanno in crisi: deputati e senatori, d’altronde, sono eletti nei collegi e temono di non riuscire a essere rieletti e a pagare in prima persona questo programma che ha bisogno dell’approvazione del Congresso. Underwood decide di forzare la mano e trasferisce d’imperio i fondi della FEMA, la Protezione Civile americana, verso il suo programma AmWorks, cominciando la sperimentazione nel Distretto di Columbia, l’unico territorio americano sotto il diretto controllo del governo federale e governato da un sindaco amico. Il programma sembra avere successo, quanto meno mediaticamente, ma è costoso. Il Congresso pretende la sospensione immediata, anche perché il Presidente ha chiaramente forzato la mano con lo storno dei fondi della FEMA. E l’occasione per deputati e senatori arriva grazie a un uragano: se non verranno restituiti i fondi e reintegrati con altre risorse, la FEMA non potrà fronteggiare un classico uragano che sta per abbattersi sulla costa orientale. Il Congresso è disposto a concedere le risorse all’Amministrazione soltanto se il Presidente ritira il suo AmWorks e il suo disegno di ridimensionare il welfare.

Underwood è costretto a cedere: troppi morti potenziali e non se la sente di giocare a poker con la natura che poi però grazierà le coste degli Stati Uniti. A quel punto, decide di giocarsi il tutto per tutto e di scendere in campo, arrivando persino a conquistare l’Iowa, il primo caucus delle primarie che porteranno i due partiti principali a scegliere i due candidati alla presidenza. Finisce così la terza serie e la quarta verrà trasmessa simultaneamente alle “vere” primarie, quelle per le quali Hillary Clinton si è già candidata e per ora quasi certamente nominata.

Al netto ovviamente degli omicidi, Matteo Renzi è il nostro Frank Underwood: ne condivide le strategie e sembra utilizzare gli stessi metodi per raccogliere consenso, imporre il suo schema di gioco e vincere la partita. Non si fa molti scrupoli a forzare la mano sulle regole pur di raccogliere i risultati che gli sembrano giusti.

Ma questo non è e non vuole essere un post “anti-Renzi”: anzi.

Il Presidente del Consiglio fa benissimo ad attuare il suo programma con la strategia che vuole, utilizzando la comunicazione che ritiene più efficace e mentendo quando egli ritiene sia il caso di mentire. Ma chi guarda quella serie si renderà conto che non soltanto il potere che ha in mano il Presidente non è assoluto; non soltanto il bilanciamento dei poteri previsto dalla Costituzione Americana è molto concreto ed efficace per evitare che uno trasbordi sugli altri.

Ciò che traspare, sin dalla prima puntata, è la missione suprema che la stampa ritiene di dover compiere: essere realmente il cane da guardia del potere, fare le pulci a ogni decisione dell’Amministrazione, scavare in fondo ai fatti senza accontentarsi di un comunicato ufficiale dell’Ufficio Stampa o ritwittando un cinguettio del Commander in Chief.

Così quando lo staff del Presidente rimuove una corrispondente di un autorevole quotidiano molto scomoda per loro perché si sta pericolosamente avvicinando a informazioni che comprometterebbero la stessa Presidenza, la direzione del giornale non cala mica le braghe, anzi: richiama da Londra la sua miglior cronista politica e la piazza alla Casa Bianca, sfidando apertamente il potere.

Ha ragione Renzi: andrebbe guardato bene House of Cards, non soltanto dalla comunità del Partito che lui dirige, come disse loro durante una Direzione Nazionale. Andrebbe studiato anche nelle redazioni e nelle direzioni delle testate italiane che troppo spesso abbassano la guardia con i potenti e contribuiscono ad asfaltare, ridicolizzare e talvolta silenziare le minoranze: più che contropotere, infatti, diventano spesso il controcanto.

 

p.s. Quando si è trattato di chiudere il mio libro #VEDRAIVEDRAI avevo bisogno di una citazione. Inizialmente avevo pensato a una tratta dal discorso di inaugurazione del secondo mandato di Giorgio Napolitano, quando il Presidente Emerito esortò i parlamentari che lo avevano supplicato ad accettare a non pensare che egli avrebbe mostrato indulgenza nei loro confronti qualora non si fossero impegnati a fare le riforme promesse. Poi optai per una frase, di Thomas Jefferson, padre costituente americano poi terzo presidente, che scrisse a  Edward Carrington, militare e politico della Virginia, già nel lontanissimo 1787, ben due anni prima della Rivoluzione Francese: «… se fosse lasciata a me la scelta di decidere fra avere un governo senza giornali oppure avere giornali senza un governo, non esiterei un istante a preferire la seconda». La sensazione è che in Italia forse non è mai stata letta o quanto meno compresa.

 

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