Anche la gloria finirà
Prometto che poi non parlo più dell’inaugurazione del secondo mandato di Obama altrimenti poi qualcuno potrebbe darmi qualche patente di imperialista! Ma l’immagine più bella dell’altro ieri al Campidoglio di Washington è – a mio avviso – questa. Il Presidente prima di lasciare la sede del Congresso degli Stati Uniti si volta ed osserva l’enorme folla accorsa per il suo giuramento. In barba al protocollo che vorrebbe che il Presidente uscisse per primo dal luogo della cerimonia, si vedono tante personalità – forse per il freddo – prendere velocemente la via di ingresso al palazzo, mentre prima gli Obama tutti e Barack per un po’ da solo dopo, si fermano a guardare la folla. «Non mi capiterà più!», osserverà l’uomo più potente del mondo, e forse questo – per un uomo descritto come molto freddo e razionale – è il momento di maggiore normalità per una storia personale straordinaria. Sa bene Barack Obama che fra quattro anni egli sarà ancora lì, su quel palco, a salutare il suo successore. Sa bene che non farà più la parata, stressando gli uomini del Secrete Service che sono sempre nervosi quando l’inquilino della Casa Bianca fa i suoi bagni di folla, e dovrà attendere il 45° Presidente in quella villetta bianca al 1500 di Pennsylvania Avenue per consegnargli le chiavi della sua Nazione, prima di salire sul Marine One, l’elicottero del Presidente, e andare alla base di Andrews per tornare quindi a Chicago e inventarsi una nuova vita.
Avrà 55 anni Barack Obama alla fine del suo secondo mandato e probabilmente avrà cambiato poco il mondo rispetto alle enormi aspettative di tutti noi, ma sicuramente sarà cambiato lui, come nelle tradizioni di chiunque entri allo Studio Ovale. Chissà chi sceglieranno i cittadini americani fra quattro anni, se vorranno il gaffeur Joe Biden, che però sarà ultrasettantenne, se Hillary scenderà ancora una volta nella lotta, nonostante anche lei si avvicinerà ai settanta, o se invece verrà fuori un altro personaggio, uomo o donna che sia, bianco, latino o nero, ateo, protestante, musulmano, magari giovane come lo era Barry cinque anni fa quando cominciò la sua marcia su Washington.
Dopo che la storia ha voltato pagina con l’elezione di Barack Hussein Obama nel 2008 e soprattutto la sua riconferma nel 2012, tutto può essere possibile.
E sarebbe bello che anche noi in Europa intercettassimo i treni che ogni tanto la storia ci fa passare davanti. Che siano treni locali, come quello che sta per passare il 24-25 febbraio con le elezioni politiche; che siano dei treni europei, come la sfida che l’Unione Europea, e quindi i popoli che la costituiscono, ha davanti: poco importa. La lezione che bisogna trarre dalla democrazia americana e dal discorso di insediamento di Obama è che siamo in cammino e che la democrazia non è pienamente realizzata, il lavoro non è completo, fino a quando ci sarà sempre qualcuno che rimane indietro. E noi qui, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, dobbiamo capire che l’Unione Monetaria che abbiamo raggiunto non è il punto di arrivo del processo di integrazione europeo cominciato dopo il secondo conflitto mondiale.
Semmai è semplicemente il punto di partenza per far sì che i nostri figli e nipoti possano vivere in un continente più solidale e più unito.